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Il “sistema Beccaria” e la rieducazione dei minori tramite la violenza
26/04/2024 2024-04-29 14:44Il “sistema Beccaria” e la rieducazione dei minori tramite la violenza

Il “sistema Beccaria” e la rieducazione dei minori tramite la violenza
Sara D’Angelo
Psicologa giuridica, CTP, collabora e affianca l’équipe redazionale di Psicologia in Tribunale, offre supporto psicologico c/o la Consulta Persone in Difficoltà di Torino.
In questi giorni risaltano in prima pagina su tutti i giornali le notizie riguardo le violenze e le torture subite dai giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile (IPM) Cesare Beccaria di Milano perpetrate da alcuni agenti della polizia penitenziaria. L’indagine, partita nel 2022 e durata fino ad oggi, evidenzia una situazione gravissima dove, dietro un muro di omertà, gli agenti pilotavano relazioni e referti per non lasciare alcuna traccia di pestaggi, violenze e abusi sessuali inflitti ai ragazzi reclusi nell’IPM.
Di fronte a tali abusi, protratti nel tempo e caratterizzati da una sistematicità tale da meritare l’appellativo di «sistema Beccaria», sono stati arrestati 13 agenti della polizia penitenziaria, mentre altri 8 sono stati sospesi.
Questa vicenda, oltre ad aver scatenato un forte impatto mediatico, ha imposto una profonda riflessione sull’approccio della giustizia minorile italiana.
Nel corso dei decenni, la giustizia minorile italiana ha adottato un approccio educativo e rieducativo nei confronti dei giovani che delinquono, riconoscendo la loro fase di crescita e sviluppo, cercando di offrire un trattamento penitenziario che tenga conto delle loro esigenze.
Questo approccio si basa sui princìpi fondamentali dell’umanità della pena e della sua finalità rieducativa, sanciti dalla Costituzione italiana all’art. 27, comma terzo, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Tuttavia, la recente esposizione dei maltrattamenti inflitti ai giovani detenuti solleva interrogativi sulla reale attuazione di tali principi.
Come possiamo pretendere di voler rieducare i giovani se coloro che dovrebbero guidarli e proteggerli utilizzano la violenza? Come possiamo sperare che imparino a comportarsi in modo giusto e modifichino le proprie condotte illecite, se nel luogo preposto alla loro rieducazione non sperimentano altro che abusi e crudeltà?
La rieducazione ed il reinserimento sociale del minore rappresentano le finalità ultime della pena e tali obiettivi possono, e devono, essere raggiunti rispettando la “minima offensività del procedimento”: poiché in potenza in grado di interrompere o turbare l’evoluzione armonica della personalità del minore, il procedimento penale deve essere concepito riducendo al minimo indispensabile il rischio di compromissione di una adeguata crescita psicologica.
L’adolescente è infatti un soggetto il cui processo educativo è in costante evoluzione così come, del resto, la sua personalità: nell’habitat carcerario, stigmatizzato in un ruolo delinquenziale, potrebbe ottenere ripetute conferme per lo sviluppo in negativo della sua identità.
È proprio in questa fase evolutiva che il minore necessita di una specifica assistenza da parte di istituzioni e di figure professionali che, grazie a competenze specialistiche, possano concorrere ad individuare i bisogni su cui intervenire nonché le risorse da potenziare nel contesto di percorsi di rieducazione calibrati sulle sue singole caratteristiche.
Già negli anni ’60, Goffman [1] evidenziava come strutture quali carceri e manicomi, da lui denominate “istituzioni totali” poiché tendessero a isolare gli individui, alimentassero un processo regressivo e degenerativo della personalità del soggetto, “spogliando gli uomini dei loro ruoli precedenti – con mortificazioni, con imposizioni di regole spersonalizzanti” [2]. In questi contesti, viene a generarsi una condizione di passività e di dipendenza dell’individuo dal predetto sistema che può renderlo del tutto incapace di vivere autonomamente nel “mondo esterno”.
In tal modo il detenuto vedrà come possibili ed ego-sintonici – ovvero coerenti col resto della propria personalità – unicamente modelli ed aspirazioni antisociali: stigmatizzato e vessato, il minore sarà portato a fare della sua diversità un ruolo stabile e ad assumerla quale componente centrale del proprio Sé.
Anche Erikson [3] ha messo in luce che l’iter formativo dell’identità delle persone trova il suo culmine nell’adolescenza, periodo in cui i ragazzi sperimentano per la prima volta esperienze sociali complesse e dove l’influenza dei pari, della società e della famiglia, così come le aspettative e i giudizi degli altri, si riflettono incisivamente sul percorso evolutivo.
È per tale motivazione che le violenze della detenzione possono indurre in un giovane un’alterazione nell’immagine, nella percezione di sé e del proprio ruolo in direzione negativa, proprio perché la sua personalità non è ancora matura: non intravedendo alternative ai modelli antisociali a lui attribuiti da terzi, potrebbe conformarsi a tali ruoli finendo per adottare una condotta deviante stabile.
Dobbiamo pertanto continuare a valorizzare e promuovere un approccio educativo e riabilitativo che dia ai giovani rei una seconda possibilità e li aiuti a realizzare il loro pieno potenziale.
Tutti gli attori coinvolti nel sistema giudiziario – dalle istituzioni, agli agenti penitenziari, dagli operatori ai genitori – devono collaborare attivamente per garantire che i detenuti ricevano il sostegno di cui hanno bisogno per reinserirsi positivamente nella società.
La violenza, lontana dall’educare, perpetua un ciclo distruttivo che danneggia sia chi la subisce sia chi la perpetra, minando le fondamenta stesse del sistema penale minorile e i principi costituzionali che dovrebbero invece essere perseguiti da chi ha scelto di fare della legalità la propria professione.
Note
[1] Goffman E., Asylums. Le istituzioni totali, traduzione italiana M. Basaglia, Torino, Einaudi, 1968.
[2] Ponti G., Merzagora Betsos I., Compendio di criminologia, 5a ed., Milano, Raffaello Cortina, 2008, p. 183.
[3] Erikson E.H., Gioventù e crisi di identità, traduzione italiana G. Raccà, Roma, Armando Editore, 2001.
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