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Violenza di genere. Quanti passi ancora per estirpare questo fenomeno?
20/11/2024 2024-11-23 15:48Violenza di genere. Quanti passi ancora per estirpare questo fenomeno?
Violenza di genere. Quanti passi ancora per estirpare questo fenomeno?
Elena Diana, psicologa giuridica e forense, giudice onorario c/o il Tribunale di Sorveglianza di Milano, professionista delle Rete di Psicologia in Tribunale.
Numeri di colore rosso tingono le pagine dei nostri quotidiani macchiando indelebilmente il ricordo di chi rimane e la memoria di chi non c’è più.
Dietro ai numeri dei volti, dei corpi, dei nomi che rapidamente rischiano di cadere nell’oblio perché i fatti di sangue, seppur cruenti ed efferati e di particolare allarme sociale, si susseguono a grande velocità offuscandone le tracce con lo scorrere del tempo, ci sono alcune storie, vuoi perché di rilevante risonanza mediatica, vuoi perché perturbanti la sensibilità pubblica e che toccano nel profondo l’animo umano, che rimangono particolarmente impresse e che riecheggiano nell’opinione pubblica ogni qualvolta torna alla ribalta un nuovo caso di cronaca nera e si ritorna a parlare dell’argomento, rilanciando politiche di prevenzione e di contrasto.
E la domanda che si rinnova tra una vittima e l’altra è sempre la stessa: perché?
Se l’è cercata è la risposta che ricalca una cultura di matrice patriarcale che impone una disuguaglianza di genere nella quale l’uomo è legittimato ad esercitare la propria autorità sulla donna in nome di una superiorità di genere che affonda le sue radici su stereotipi che attribuiscono al femminile un senso trasversale di inferiorità.
Con la rivoluzione neolitica risalente all’incirca tra i 6000-4000 anni fa, contestualmente alla nascita delle stratificazioni sociali a difesa di beni e risorse distribuite in maniera diseguale, dal dominio e dal controllo sulle risorse della terra e con la ripartizione in caste di società complesse, si è passati nel giro di pochi millenni alla divisione dei ruoli in famiglia e quindi ad una gerarchia fondata sulla differenza di genere, al controllo sulle nascite e sulle procreazioni e quindi al proliferare del dominio della donna, mero strumento di riproduzione, che diventa merce di scambio per favorire la sopravvivenza dei clan e il mantenimento degli equilibri tra gruppi sociali.
È matto, l’eco che rimbomba quando a motivare i crimini più violenti viene chiamata in causa la malattia mentale, il raptus quale impulso improvviso ed incontrollato che spinge all’omicidio o altrimenti detto delitto d’impeto, un epiteto tanto altisonante quanto suggestivo privo di fondamenta diagnostiche, forse umanamente più tollerabile perché idealmente attenuerebbe l’impatto sconcertante dell’azione omicidiaria circoscrivendola al noto stigma sociale della follia, che non farebbe altro che deresponsabilizzare il carnefice assoggettando ancora una volta la donna a fenomeni di vittimizzazione secondaria.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, attraverso la risoluzione n. 54/134 del 17 dicembre 1999, ha istituito il 25 novembre come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, una data che ricorda il brutale assassinio avvenuto il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana, per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo, ai danni di tre sorelle Patria, Maria Teresa e Minerva Mirabal, dette “las Mariposas” (“le farfalle”, pseudonimo del “Movimento 14 giugno”), rivoluzionarie impegnate politicamente e militanti attive nella lotta clandestina alla tirannia, trucidate per il loro dissenso politico in nome della libertà e della lotta all’oppressione.
Da allora il 25 Novembre, che segna anche l’inizio dei “16 giorni di attivismo sulla violenza di genere” che precedono la Giornata mondiale dei diritti umani il 10 dicembre di ogni anno, promossi nel 1991 dal Center for Women’s Global Leadership (CWGL) e sostenuti dalle Nazioni Unite, rappresenta la giornata in cui ricorrono iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica in difesa dei diritti umani e sul contrasto alla violenza di genere.
Nel 2009, l’artista messicana Elina Chauvet realizza il progetto d’arte pubblica denominato Zapatos Rojos, che assume la forma di un’installazione composta da centinaia di paia di “scarpette rosse” in segno di lotta contro l’omertà che cela lo stupro, la scomparsa e l’uccisione di centinaia di donne a Ciudad Juárez, città di frontiera nel nord del Messico dove, a partire dal 1993, si registra un’ondata di femminicidi, tra cui la tragica morte di sua sorella per mano del marito. Il suo progetto, replicato innumerevoli volte in Messico, raggiunge numerose città del mondo fino ad arrivare, per la prima volta in Europa, a Milano, il 18 novembre 2012, e poi a Genova, Lecce, Torino, Bergamo, Mandello al Lario, Reggio Calabria.
Da allora le scarpe rosse esposte in luoghi pubblici, sistemate ordinatamente lungo un percorso urbano, che ne ridisegna lo spazio e l’estetica, raffigurano una marcia di donne “assenti”, un corteo che rievoca simbolicamente la protesta contro il femminicidio e contro ogni forma di violenza di genere e che attiva una rete di solidarietà che inizia dal singolo e prosegue con la rete di istituzioni ed associazioni, che nel partecipare alla raccolta delle scarpe, contribuiscono alla diffusione del messaggio che la marcia di Zapatos Rojos intende trasmettere.
Più trasversalmente, il colore rosso è il simbolo dell’amore, dell’eros e della vitalità sessuale ma, fin dall’antichità, anche della passione che si trasforma in sangue e quindi della morte, ma è anche simbolo di forza, fisica e mentale, che ricalca la volontà di chi piange la scomparsa di un congiunto per dire basta alla violenza di genere.
Diversi oggetti nel tempo hanno integrato nel colore rosso un messaggio simbolicamente associato alla lotta contro il femminicidio, tra i quali la “panchina rossa”, rappresentativa del posto occupato da una donna che non c’è più perché portata via dalla violenza. Collocata in una piazza, in un giardino pubblico, davanti ad una scuola, a un museo o in un centro commerciale, in un luogo pubblico che ne mantiene viva la presenza, dove fermarsi, anche seduti, a riflettere.
Il “nastro o fiocco rosso”, appuntato al bavero di una giacca o come logo nelle campagne di comunicazioni contro la violenza, seppur nasca originariamente nel 1991 come simbolo internazionale della lotta all’Aids, rappresenta metaforicamente il “nastro della consapevolezza” per porre l’attenzione su una causa da combattere.
Il rosso è diventato protagonista di numerose campagne di sensibilizzazione sui Social Network contro la violenza di genere. Nel 2018, l’allora vicepresidente della Camera dei deputati Mara Carfagna lanciò la campagna “Non è normale che sia normale”, dove la stessa ex ministra delle Pari Opportunità dipingeva il suo volto con il rossetto rosso trascinando noti personaggi pubblici nell’iniziativa all’insegna di una rivoluzionaria battaglia culturale senza precedenti.
Ancor oggi di arancione vengono illuminati i monumenti di molte città nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre. Si tratta della campagna “Orange the world”, un’iniziativa che dal 25 novembre al 10 dicembre, Giornata Internazionale dei Diritti Umani, vede monumenti, scuole e strade di diverse città nel mondo colorarsi di arancione, il colore ufficiale di UNiTe (Invest to Prevent Violence against Women and Girls) a simboleggiare la volontà di costruire un “futuro più luminoso senza violenza contro le donne”.
In risposta ad una richiesta di aiuto frequentemente sottaciuta, nel crescendo di episodi di violenza intrafamiliare registrati durante la pandemia da Covid-19, l’Associazione Canadian Women’s Foundation ha lanciato nell’aprile 2020 il “Signal for Help” diventato popolare in tutto il mondo: pollice della mano piegato, quattro dita in alto e poi chiuse a pugno, un gesto universale, semplice e silenzioso, segnale rappresentativo di un’impellente richiesta d’aiuto che tutti noi dobbiamo saper riconoscere e replicare in caso di bisogno, per denunciare una situazione di violenza anche in presenza dell’aggressore. La sua risonanza mediatica e sociale è palpabile e sembra poter dar voce a chi con le parole non riesce a fuggire dall’invischiamento relazionale tipico della dipendenza affettiva e quindi dal ciclo della violenza.
E allora cosa fare?
Qualcosa è stato fatto, ma serve ancora di più, per sensibilizzare l’opinione pubblica nel rileggere criticamente i fenomeni di violenza di genere ed attivare politiche di prevenzione e contrasto, per educare le giovani generazioni all’insegna di valori che tracciano il rispetto di sé e dell’altro, incoraggiare l’alfabetizzazione emotiva, promuovere la parità tra uomo e donna in ogni ambito della vita pubblica e privata e quindi favorire la destrutturazione degli stereotipi di genere, sostenendo l’emancipazione femminile, per frenare i numeri in crescita e rilanciare una risposta più solida che, ragionevolmente, troverebbe nel radicale cambiamento culturale un sostanziale cambiamento di rotta.
L’approccio al fenomeno richiede una strategia di intervento congiunto e sinergico da parte di tutti i protagonisti della società civile, istituzionali e non, al fine di debellare ogni fattore che contribuisca ad alimentare i presupposti per lo sviluppo e il perpetuarsi di forme di violenza di genere.
La tua relazione è altamente conflittuale? Devi sapere che, a parte casi particolari, prima di arrivare a forme più eclatanti di violenza di genere, sono numerosi gli indizi, i cosiddetti red flags (bandierine rosse), che possono segnalare una situazione di rischio. Ma spesso questi segnali non vengono presi in considerazione.
In questo seminario esperienziale scoprirai quali sono le dinamiche relazionali che possono acuire la conflittualità nella coppia, i segnali di allarme cui prestare attenzione e come, attraverso la Comunicazione ad Alto Impatto, sia possibile comunicare in maniera efficace per evitare che il conflitto degeneri in violenza.
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