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Suicidio in carcere. La prevenzione è possibile?

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Psicologia

Suicidio in carcere. La prevenzione è possibile?

Il suicidio è una piaga sociale che nel nostro paese miete circa 4.000 vittime all’anno. Tra la popolazione carceraria, il rischio di suicidio aumenta di 16 volte ed è la prima causa di morte. Nei nostri istituti di pena, infatti, si suicida un detenuto ogni cinque giorni. Se l’Italia è un paese dove il tasso di suicidi in rapporto alla popolazione totale è considerato basso – 0,67 casi di suicidio ogni 10.000 abitanti, risulta essere, invece, al decimo posto in Europa tra le nazioni con il più alto tasso di suicidi in carcere.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che i detenuti, in ogni parte del mondo, non solo hanno tassi di suicidio più elevati rispetto al resto della società, ma presentano frequenti pensieri e comportamenti suicidari durante tutto il corso della loro vita.

Già nel 1999 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha attivato SUPRE (Suicide Prevention), un’iniziativa a carattere mondiale per la prevenzione del suicidio. Si può fare molto per prevenire il suicidio e il mondo non è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi stabiliti dall’OMS per la riduzione dei suicidi per il 2030.

L’approccio LIVE LIFE dell’OMS raccomanda quattro interventi chiave che si sono dimostrati efficaci:

  1. limitare l’accesso ai mezzi di suicidio
  2. interagire con i media per la segnalazione responsabile del suicidio
  3. promuovere le abilità di vita socio-emotive negli adolescenti
  4. identificare, valutare, gestire e seguire precocemente chiunque sia colpito da comportamenti suicidali

Nel documento sulla prevenzione del suicido nelle carceri, sempre dell’OMS, si formulano le seguenti conclusioni:

“… anche se molte volte non ci è dato di prevedere con precisione se e quando un detenuto tenterà il suicidio o lo porterà a termine, gli agenti di custodia, gli operatori sanitari e il personale psichiatrico possono essere messi in grado di identificare detenuti in crisi suicidaria, stimare il loro rischio e trattare eventuali gesti suicidari. Anche se non tutti, molti suicidi in carcere possono essere prevenuti, e l’implementazione di programmi generali per la prevenzione del suicidio in tutto il mondo è uno degli strumenti che abbiamo per ridurre sistematicamente il loro numero”.

Donatella e il Giudice di sorveglianza

“Dona era una ragazza solare e spensierata, che sognava di tornare a fare l’estetista… Ma poi, negli ultimi 8 mesi, non so cosa sia successo. Era triste. Il suo sorriso è stato spento e oggi mi chiedo cosa sia successo in quei minuti”.

Così Leo descrive la fidanzata, Donatella, 27 anni, morta suicida in carcere lo scorso 2 agosto.

Quello di Donatella è uno dei rari casi di suicidio in carcere balzati agli onori delle cronache grazie ad un evento oseremo dire insolito: le parole scritte per lei da Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona, che l’aveva seguita negli ultimi sei anni.

“Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente. Inutile dire che la sensazione che provo è quella di sgomento e dolore. So che avrei potuto fare di più per lei”.

La storia di Donatella ha squarciato il velo di oblio del quale sono ammantati i tanti drammi che si compiono tra le sbarre, mettendo a nudo le storture di un sistema che la politica e la società tende a ignorare. Si dimentica spesso che i detenuti non sono solo numeri, ma persone come le altre, con le proprie storie e fragilità.

Il sistema carcere, così come è concepito, crea gravi difficoltà anche a chi lo vive per mestiere.

“So che avrei potuto fare di più per lei – ha scritto ancora Semeraro –, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più… quando si muore così vuol dire che il sistema dell’esecuzione penale, così come è concepito in Italia, ha fallito. E tra i primi soggetti che hanno fallito io metto me stesso… Ed è vero, è il sistema che ha fallito, io però sono un ingranaggio del sistema”.

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