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Quando il trauma è collettivo

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Psicologia

Quando il trauma è collettivo

Stefania Tucci
Psicologa Psicoterapeuta, Psicotraumatologa

Shoah è un termine che in italiano significa olocausto, genocidio e in ebraico è associato al concetto di catastrofe, disastro e distruzione. Affonda le sue origini nei riti sacrificali di alcune religioni dell’antichità, compresa quella ebraica. Ma, nella sua accezione moderna, fa riferimento, a partire dal 1940, al genocidio della popolazione ebraica residente in Europa, e per estensione alla “soluzione finale” ovvero allo sterminio di numerose minoranze che ebbe luogo in Germania e nei paesi occupati dal terzo Reich, a seguito delle politiche razziali naziste.

Shoah è una parola che, da un punto di vista psicologico, fa riferimento ad un trauma, un trauma collettivo di portata devastante perché, per la prima volta nella storia dell’umanità, il genocidio di intere popolazioni fu perpetrato con metodi sistematici, direi quasi scientifici. 

Questa caratteristica rende quel genocidio esecrabile perché ha tradito nel profondo la fiducia che un essere umano può riporre in un altro essere umano. La scia di dolore e di devastazione che ha lasciato dietro di sé ha coinvolto e coinvolge i sopravvissuti a quegli eventi e l’umanità tutta.

Un trauma collettivo di questa portata è un evento catastrofico che, si potrebbe dire, mina e manda in frantumi le radici stesse di una comunità. Non si tratta soltanto di una questione di perdita di vite umane, il trauma collettivo determinatosi a seguito del genocidio degli ebrei d’Europa ha dato vita anche ad una crisi di significato e di valori che ha logorato nel profondo l’identità di milioni di individui e di un intero popolo. 

L’importanza del Giorno della Memoria

Perché una comunità possa rifondarsi e ridefinire la propria identità all’interno di un sistema di valori condiviso deve trasformare il trauma in una memoria condivisa, in una memoria collettiva.

Da questa profonda necessità psicologica nasce il Giorno della Memoria che commemora le vittime della Shoah, sancito in Israele nel 1959 e dalle Nazioni Unite nel 2005. Si celebra il 27 gennaio, il giorno della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz.

Come sosteneva Maurice Halbwachs, finché un ricordo sopravvive, è inutile fissarlo per iscritto, o fissarlo comunque. In sostanza, finché il ricordo di un evento sopravvive, una comunità vive e si riconosce intorno a quel ricordo.

“La memoria di una società si estende fin là dove può, fin dove arriva la memoria dei gruppi di cui è composta… Questa memoria, la memoria collettiva si realizza all’interno di cornici sociali: non si ricorda che insieme ad altri, non esistono memorie strettamente individuali”.

La dimensione collettiva della memoria

La memoria collettiva è un patrimonio condiviso di ricordi relativo un passato più o meno mitico sul quale una comunità o un gruppo di individui fondano la propria storia e la propria identità. Non rappresenta una semplice somma delle memorie dei singoli individui che compongono quella società, ma piuttosto una dimensione collettiva della memoria. Svolge una funzione attiva e ricostruttiva dei ricordi, intorno alla quale quel gruppo di persone, così tragicamente segnate dagli eventi, rifonda la propria identità di popolo e si proietta verso il futuro.

Nel caso dei sopravvissuti alla Shoah, il lavoro di ricostruzione del ricordo di quei fatti drammatici avviene giorno dopo giorno, dal dopoguerra. Primo Levi, scrittore italiano reduce dai campi di sterminio tedeschi, morto suicida nel 1987, affermava che, se è impossibile comprendere, è necessario conoscere. 

Numerosi studi transgenerazionali, condotti su soggetti esposti a disastri naturali o a grandi traumi, hanno messo in evidenza come i loro discendenti manifestino un più elevato tasso di sintomi d’ansia, depressione, stress post-traumatico, deficit di attenzione e disturbi comportamentali, rispetto alla popolazione generale. 

D’altro canto, è ormai dimostrato che, parallelamente alla fragilità, possono essere trasmessi all’interno delle famiglie e delle comunità forme di resilienza e sistemi protettivi. 

Alla luce di queste considerazioni e come è emerso da numerosi studi, la possibilità da parte delle vittime di appropriarsi e storicizzare l’esperienza traumatica per mezzo di racconti personali, risultanze documentali o partecipazione a rituali collettivi, parlandone apertamente, anche in forma umoristica, oppure coltivando l’impegno civile, politico, culturale e artistico, consentirebbe di far sì che le nuove generazioni siano meno vulnerabili al disagio psicologico.

In sostanza, il Giorno della Memoria, come le memorie e i riti collettivi di tutti i popoli del mondo, svolge un ruolo di fondamentale importanza per la cura del trauma collettivo di un popolo, in questo caso quello ebraico, altrimenti esposto al supplizio di ferite insanabili.

 

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