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Psicologia e diritto, linguaggi a confronto

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Psicologia Giuridica

Psicologia e diritto, linguaggi a confronto

Maria Rita Guglielmi
corsista del corso di alta formazione Ruolo e Funzioni del Consulente Tecnico Psicologo in Ambito Minorile

La psicologia giuridica è un campo d’indagine all’interno del quale si incontrano le due discipline autonome del diritto e della psicologia – sulla base di un comune interesse per l’essere umano e le sue azioni – che si differenziano rispetto ad alcune importanti dimensioni. Da una parte il diritto si pone come disciplina pratico-prescrittiva che si interessa al comportamento umano con una funzione regolamentativa (Quadrio, Castiglioni, 1995). Questa si esplicita attraverso regole, norme, leggi, nonché attraverso un linguaggio che si potrebbe definire dicotomico: si pensi all’idea di giusto/sbagliato, di ciò che si deve/non si deve fare. La finalità conoscitiva del diritto in relazione a quello che accade nel mondo è legata al concetto di autoreferenzialità, dal momento che la spiegazione del comportamento e degli accadimenti è guidata da un rigido sistema di norme e leggi.

In effetti, le categorie giuridiche, intese come concetti giuridici astratti (quali diritto e dovere, obbligo, responsabilità, ecc.), così come norme e leggi, sono rigide e convenzionali, ma soprattutto sono prodotti umani auto-generati, dunque si auto-giustificano. Gulotta et al. evidenziano, infatti, come il discorso del diritto sia “improntato fondamentalmente in modo ermeneutico verso l’interpretazione delle norme” e di come esso “tende a reificare i suoi contenuti, in modo da autodefinire il proprio discorso veridico” (Gulotta et al., 2000, p. 232). Il diritto è auto-vincolante rispetto alla decidibilità, ricerca certezze in base a quello che le norme stabiliscono e si auto-organizza: in tal senso fa rientrare comportamenti e accadimenti all’interno delle categorie giuridiche identificati nelle leggi, che a priori hanno la funzione di descrivere le condizioni alle quali poter applicare una regola (Patrizi, 2012). In effetti già Berger e Luckmann (1966), nel loro saggio “La realtà come costruzione sociale”, descrivendo il processo di istituzionalizzazione della realtà sociale come necessario per un ordine culturale e sociale, parlavano dell’istituzione della Legge come prodotto auto-generato, tuttavia vissuto dagli uomini come una realtà oggettiva, al di sopra di essi e coercitiva ed evidenziavano come tale processo di oggettivazione avvenga primariamente attraverso il linguaggio, che diventa un linguaggio specifico, proprio dell’istituzione stessa.

È proprio a partire dal linguaggio, infatti, che è presente il richiamo all’oggettività del mondo giuridico: il linguaggio del diritto è un linguaggio certo, che ricerca e pretende la verità dei fatti, impregnato di uno “stile idiomatico” e “di una prosa incline a privilegiare moduli espressivi stereotipati e retorici” (Conte, 2014, p. 647), il che, ad esempio, si sposa perfettamente con il concetto di uguaglianza di fronte alla legge. La sintassi è stabile e poco flessibile, i periodi sono lunghi e vi è un uso frequente di forme impersonali, della terza persona e delle forme dell’infinito (Cavagnoli, Ioriatti Ferrari, 2010). Quest’aspetto, in particolare, potrebbe contribuire a richiamare l’oggettività. Le norme giuridiche, per esempio, come evidenzia Gulotta (2011), presentano due caratteristiche: la generalità, poiché esse parlano ad una collettività, a categorie intere di individui viste come omogenee, e l’astrattezza, poiché non regolano comportamenti specifici, piuttosto situazioni tipiche individuate in maniera, appunto, astratta.

Dal canto suo, la psicologia si presenta come una disciplina applicativo-descrittiva con finalità conoscitiva. I suoi costrutti non godono di auto-referenzialità, come le categorie giuridiche, ma sono flessibili e mutevoli (anche in base all’evoluzione degli studi scientifici), dal momento che “il suo oggetto di studio è un luogo di accadimenti fisici e psichici non predeterminabili, ma suscettibili solo di indagine, comprensione e spiegazione” (Gulotta et al., 2000, p. 232). È orientata a comprendere i significati dell’umano incastonati nelle azioni, nei pensieri, nelle relazioni, nelle narrazioni di ognuno e a generalizzare l’esperienza: in tal senso è impegnata ad effettuare un continuo confronto tra quello che viene rilevato e quello che è atteso. Se il diritto è ancorato alla decidibilità secondo norme e criteri preesistenti e stabiliti autonomamente, la psicologia è legata al concetto di probabilità e le sue decisioni, piuttosto che guidate da schemi prestabiliti, sono legate all’elaborazione di progettualità di intervento, che variano in base agli obiettivi di cambiamento in senso contestuale e alle teorie di riferimento (Patrizi, 2012). Quindi, contrariamente al linguaggio giuridico, il linguaggio della psicologia è un linguaggio ipotetico, che esige dubbio conoscitivo e falsificabilità: infatti, il sapere psicologico “non può determinare né strutturare a priori il proprio campo di interesse in quanto il suo oggetto di studio è un luogo di accadimenti fisici e psichici non predeterminabili, ma suscettibili solo di indagine, comprensione e spiegazione” (Gulotta et al., 2000, p. 232). I costrutti psicologici sono costrutti flessibili, non rigidi, che per di più si evolvono con l’evoluzione degli studi scientifici. Dunque, anche il linguaggio si evolve insieme ad essi. Tuttavia, sarebbe opportuno parlare piuttosto di linguaggi psicologici, dal momento che sono molteplici le teorie e gli approcci psicologici esistenti e i relativi oggetti di studio, visioni dell’uomo e concezioni della realtà. Nello specifico, è possibile attraversare un continuum che va da un linguaggio più esplicativo, descrittivo e legato a processi di spiegazione causa-effetto, che, vicino al modello medico, tende ad oggettivare la psiche e il comportamento, ad un linguaggio più pragmatico, che assume la valenza di uno strumento fondamentale attraverso cui costruire, comprendere e dare un senso agli eventi. Altresì, è bene sottolineare la valenza terapeutica del linguaggio, dell’uso della parola come cura. In ogni caso, come evidenziano Faccio e Salvini (2008) il linguaggio psicologico, in particolare quello della psicoterapia, è denso di metaforizzazioni (metafore, paragoni, similitudini, allusioni, metonimie, assonanze, schemi, modelli, generi narrativi e discorsivi), ovvero di tutte quelle forme linguistiche che permettono di generare a livello simbolico le esperienze proprie, altrui e del mondo. Questo perché esse permettono senz’altro di condensare in un’unica espressione qualcosa che sarebbe difficile dire in altro modo.

Ciò premesso, ci si chiede: come avviene la comunicazione tra questi due mondi? Come le esigenze dell’uno si adeguano a quelle dell’altro? E come può lo psicologo giuridico incarnare il proprio ruolo – a cavallo tra le due discipline – in modo efficace?

Il ruolo dello psicologo giuridico

È intuibile che le differenze tra le due discipline rendano la comunicazione tra loro – più nel concreto tra psicologi e giuristi – non scontata o sempre facile. Affinché possa esserci una collaborazione proficua è essenziale che entrambi siano in grado di contestualizzare da una parte le conoscenze psicologiche e dall’altra le richieste giuridiche e tradurle in un linguaggio che sia comprensibile e chiaro per l’altro interlocutore. È bene comunque che lo psicologo giuridico sia in grado di utilizzare le forme di sapere che più si adattano alle richieste della committenza giuridica (Salvini, 2008): del resto, quando si parla di psicologia giuridica, si parla di interdisciplinarità. È opportuno tener sempre presente quale sia l’esigenza giuridica primaria quando si deve esplicare una consulenza tecnica, con l’obiettivo di fare chiarezza su una situazione ben precisa e di agevolare il giudice nella sua decisione finale. Di conseguenza è importante cercare di evitare che teorie, metodi e tecniche utilizzate prendano la strada della decontestualizzazione e della certezza assoluta da un lato o del relativismo estremo dall’altro. In tal senso è importante capire cosa utilizzare e come e infine in che modo riuscire a rimandare la propria riflessione “psicologica” al giudice in modo quanto più completo possibile, ma comunque puntuale e definito.

In tal senso, la psicologia giuridica si pone come una disciplina applicativa – che unisce il mondo del diritto alle competenze della psicologia relative a diversi ambiti (quali la psicologia clinica, la psicologia evolutiva, della famiglia, la psicologia dei gruppi, delle organizzazioni e sociale) e congiunge la valenza prescrittiva del diritto alla valenza descrittiva della psicologia, focalizzandosi sul rapporto individuo – norme – società, all’interno del quale poter produrre riflessioni, domande, obiettivi e proposte di intervento. Ponendosi, dunque, come disciplina autonoma, attinge paradigmi, metodi e strumenti dal sapere psicologico, propone tentativi di applicazione di questi a contesti relativi al diritto e alla giustizia (Patrizi, 2012).

Certo è che lo psicologo giuridico, dovendo intervenire durante un processo – civile o penale che sia – per approfondire dinamiche e aspetti in cui il giudice non è competente e dovendo rispondere a specifici quesiti in modo tecnico-specifico, deve avere necessariamente una formazione specifica che sia a cavallo tra il diritto e la psicologia.

Sul piano del linguaggio, quello che accade è che una qualsiasi situazione, significativa dal punto di vista processuale, avrà un duplice significato: da una parte un significato giuridico, guidato dalla normativa di riferimento, dall’altra un significato psicologico, guidato da motivazioni intrapsichiche o interpersonali (Cenerario, 2017). L’idea è che deve compiersi un passaggio obbligatorio, che può sembrare scontato, ma non lo è affatto. Lo psicologo giuridico nella sua attività, che sia di perizia o consulenza, si trova di fronte ad una necessaria traduzione da compiere: il linguaggio del giurista e in particolare le categorie giuridiche devono ricondurre a costrutti psicologici su cui fondare le proprie riflessioni, il che risulta complesso dal momento che, come evidenzia Salvini (2008), si tratta di entità giuridiche considerate dal codice stesso, piuttosto che dalla loro esistenza ontologica. Dunque, il processo di traduzione è strettamente legato all’interpretazione dell’esperto, guidato certamente dalla sua formazione teorico-pratica.

In base alla natura del processo e alle motivazioni che hanno spinto il giudice a richiedere una perizia o consulenza tecnica, sono diverse le categorie giuridiche che i periti e i consulenti tecnici si ritrovano a tradurre in termini di costrutti psicologici, il che spesso risulta un arduo lavoro proprio per l’irriducibilità di questi ultimi a concetti giuridici precisamente analizzabili e definiti: concetti quali responsabilità, capacità di intendere e di volere, pericolosità sociale, idoneità genitoriale, idoneità a testimoniare sono complesse strutture di significato che da una prospettiva psicologica non sempre trovano una precisa corrispondenza né tanto meno possono essere oggettivate (Salvini, 2008).

Complesso, dunque, è il ruolo dello psicologo giuridico che deve, a conclusione della consulenza tecnica, condensare tutto il lavoro svolto nella sua relazione peritale. A pensarci bene, quest’ultima, prodotto finale della consulenza stessa, sarà sede dell’incontro tra le due discipline e tra i due linguaggi, sarà – quindi – il contenitore di una riflessione psico-giuridica. Come può tale riflessione essere pertinente da entrambi i punti di vista?

Leggi anche:

COME PRODURRE UN ELABORATO PERITALE EFFICACE

BIBLIOGRAFIA

  • Berger, P. L. & Luckmann, T. (1996), La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1997. 
  • Capri, P. (2001), “Difficoltà e complessità d’approccio psicologico e metodologico in contesti giuridici differenziati”, in Newsletter AIPG, 5, pp. 5-7.
  • Capri, P. (2007), “I quesiti peritali: una questione tuttora aperta”, in Newsletter AIPG, 31, pp. 1-3. 
  • Capri, P. (2010), “L’approccio psicologico ai quesiti, in Newsletter AIPG, 41, pp. 1-4. 
  • Castiglioni, M., Faccio, E. (2010), “Costruttivismo, costruttivismi e altre dispute epistemologiche”, in Costruttivismi in psicologia clinica: teorie, metodi, ricerche, Torino, UTET Università, pp. 5-26. 
  • Cavagnoli, S., Ioriatti Ferrari, E. (2010), “Linguaggio giuridico, genere e precarietà”, in Rivista italiana di linguistica e dialettologia, XII, pp. 189-204. 
  • Cenerario, L. (2017), Compendio di Psicologia Giuridica, Padova, Primiceri Editore. 
  • Codice deontologico degli psicologi italiani 
  • Conte, G. (2014), Il linguaggio giuridico forense: forma, stile, funzione, in Giustizia civile, 3, pp. 647-676. 
  • Faccio, E., Salvini, A. (2007), “Le metaforizzazioni nelle pratiche discorsive”, in Molinari, E., Labella, A.  (a cura di), Psicologia clinica: dialoghi e confronti,  Milano, Springer Verlag, pp. 123-138.
  • Faccio, E., Veronese, G. & Castiglioni, M. (2010), “La dimensione relazionale: interazionismo simbolico, costruzionismo sociale, teorie sistemiche e narrativismo”, in Castiglioni, M., Faccio, E. (a cura di), Costruttivismi in psicologia clinica: teorie, metodi, ricerche, Torino, UTET Università, pp. 27-55. 
  • Gulotta et al. (2000), Elementi di Psicologia Giuridica e di Diritto Psicologico Civile, penale, minorile, Milano, Giuffrè Editore.
  • Gulotta, G. (2011), Compendio di psicologia giuridico-forense, criminale e investigativa, Milano, Giuffrè Editore. 
  • Linee guida deontologiche per lo psicologo forense
  • Linee guida per i CTU per lo svolgimento delle operazioni peritali e per la redazione delle consulenze tecniche, Tribunale di Caltagirone. 
  • Quadrio A., Castiglioni M. (1995), “Interazioni concettuali fra psicologia e diritto”, in Quadrio A., De Leo G. (a cura di), Manuale di Psicologia Giuridica, Milano, LED.
  • Patrizi, P. (2012), “Identità e profili della psicologia giuridica nel settore minorile”, in Patrizi, P. (a cura di), Manuale di psicologia giuridica minorile, Roma, Carocci editore, pp. 23-36.
  • Salvini, A., Ravasio, A., Da Ros, T. (2008), Psicologia clinica giuridica, Firenze, Giunti editore.

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