Follia e crimine: quando si è responsabili penalmente?

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Follia e crimine: quando si è responsabili penalmente?

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Psicologia Giuridica

Follia e crimine: quando si è responsabili penalmente?

Alessia Mensurati, psicologa giuridica, formata in   Neuropsicologia clinica e riabilitativa, con background in Neuroscienze Cliniche. Appassionata di Psicologia Giuridica e Neuropsicologia Forense, collabora con la redazione di Psicologia in Tribunale.

Ogni qualvolta la cronaca riporta casi di omicidio o atti di violenza estremamente gravi, assistiamo ad una reazione sociale comune: l’attribuzione automatica della “pazzia” all’autore di tali gesti. Questo processo psicologico collettivo è intelligibile e immediato: aiuta a distanziarsi emotivamente dall’evento, rendendolo più accettabile perché associato a qualcosa di lontano e incomprensibile come la malattia mentale. L’identificazione dei responsabili come “folli” sembra offrire una spiegazione rassicurante e una forma di protezione dal senso di sconvolgimento che certi atti ci portano a provare. Tuttavia, questa percezione spesso non corrisponde alla realtà giuridica.

In ambito legale, l’attribuzione di un vizio di mente (che implica una compromissione della capacità di intendere e di volere) è una circostanza attenuante che richiede – per la Legge italiana – una valutazione approfondita e rigorosa ad opera di psicologi e psichiatri attraverso l’uso di test standardizzati specifici per la valutazione della personalità e delle facoltà cognitive.

Prendendo in esame l’articolo 85 del Codice Penale “è imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere”.

Con imputabilità si intende la presenza di un presupposto minimo di maturità di un soggetto, tale da poter attribuire allo stesso l’atto compiuto e le conseguenze giuridiche correlate.

Con capacità d’intendere e di volere parliamo di un criterio giuridico cruciale per la valutazione della responsabilità penale di un individuo: la capacità di intendere rappresenta l’abilità di comprendere e valutare la realtà in modo adeguato, includendo la capacità di distinguere tra lecito e illecito, mentre la capacità di volere indica la facoltà di un individuo di tradurre un’intenzione in un atto deliberato, mantenendo il controllo sul processo decisionale, il quale include la consapevolezza delle diverse alternative e le possibili conseguenze.

Nonostante l’autore di un fatto particolarmente efferato possa essere caratterizzato da disagi psicologici, diagnosi psichiatriche o disturbi di personalità come disturbo paranoico o disturbo narcisistico di personalità, tutto ciò non implica automaticamente che il soggetto sia incapace di comprendere il senso delle proprie azioni o di autodeterminarsi. Anzi, la capacità di intendere e di volere è un parametro che, se riconosciuto, conferma la piena imputabilità del soggetto e – di conseguenza – la responsabilità per l’atto compiuto.

Quindi, differentemente da quella che è la credenza comune, non è sufficiente compiere atti efferati, né riscontrare la presenza di disturbi psicologici o tratti psicopatologici per affermare che un individuo sia incapace di intendere e di volere. 

Il Codice Penale si esprime sull’impossibilità totale o parziale di essere imputabili, attraverso gli articoli 88 ed 89:

  • Art. 88 “Vizio totale di mente”: non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere.
  • Art. 89 “Vizio parziale di mente”: Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita.

Ma chi rientra nella infermità totale o parziale? Colui che, a seguito di un’approfondita valutazione, risulta manchevole o nella capacità di comprendere il senso di ciò che compie o nella capacità di autodeterminarsi o in entrambe.

Ciò che viene indagato riguarda il grado di consapevolezza di un soggetto, la sua capacità di controllo degli impulsi e se durante il fatto era influenzato da fattori esterni come alcol e droghe o interni come un episodio acuto di psicosi.

Ad esempio un soggetto con diagnosi di disturbo borderline di personalità può avere – per caratteristiche proprie del disturbo – delle difficoltà nelle relazioni interpersonali e nelle sue reazioni emotive, ma tale diagnosi non va necessariamente a compromettere le sue capacità di discernimento tra giusto e sbagliato. Così come un individuo con schizofrenia, se ha compiuto un determinato atto durante una fase psicotica attiva, con deliri o allucinazioni che influenzano le sue azioni, potrebbe essere considerato incapace, ma se l’atto è stato compiuto al di fuori dell’episodio psicotico risulterebbe pienamente responsabile. Stessa cosa vale per il tanto citato disturbo narcisistico di personalità, per il disturbo antisociale o qualsiasi altro disturbo o tratto: una diagnosi di disturbo psicopatologico non è sinonimo di “follia” a cui spesso – per percezione popolare – si associa automaticamente l’incapacità di intendere e di volere.

È quindi di particolare importanza, soprattutto a seguito dei fatti di cronaca recenti che hanno catalizzato l’interesse di molti italiani, rendere ben chiaro che la capacità d’intendere e di volere è un costrutto articolato e complesso che non può e non deve essere semplificato a una dicotomia “sano/incapace”. Sono, quindi, sempre necessarie perizie medico-legali che vadano ad esaminare caso per caso.

La realtà è, quindi, complessa: chi compie gesti di importante gravità spesso vive un profondo disagio con se stesso e con gli altri, ma ciò non è sufficiente a scagionarlo. Questo tema, al crocevia tra psicologia e diritto, ci invita a riflettere su come la percezione della morale e dei disturbi psicologici e dei tratti di personalità influenzino il giudizio della società sulla capacità di una persona di essere ritenuta responsabile delle proprie azioni.

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