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La verità dal punto di vista psicologico

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Psicologia

La verità dal punto di vista psicologico

Stefania Tucci
psicologa e psicoterapeuta

Cos’è la verità dal punto di vista psicologico? In che modo alcuni importanti teorici l’hanno considerata? Esiste una verità psicologica? È importante per uno psicologo fondare le proprie riflessioni e interpretazioni sul concetto di verità? Queste, alcune delle domande alle quali cercheremo di fornire una risposta.

“Lascia perdere, vecchia”, disse Tiresia ridendo a Pannychis, “non preoccuparti di ciò che può essere stato diverso da come ce l’hanno raccontato e che non smetterà di cambiare faccia se noi continueremo a indagare… La verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta”1.

Nella sua rivisitazione un po’ beffarda della tragedia dell’Edipo re di Sofocle, Friedrich Dürrenmatt, eclettico scrittore contemporaneo, ripercorre le tracce del dramma individuale di Edipo “un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori”2, questa volta però dal punto della Pizia Pannychis XI, resasi responsabile della più insensata e inverosimile delle profezie che sia mai stata pronunciata. Una profezia che non si sarebbe certamente mai avverata, pensava la Sacerdotessa di Apollo, “perché nessuno al mondo può ammazzare il proprio padre e andare a letto con la propria madre”3.

Eppure, quella profezia, vaticinata dalla Pizia più abile e scaltra che il mondo della letteratura universale abbia mai conosciuto, si compie, almeno così appare. Per questo motivo quando Pannychis, ormai dimentica di tutto, riceve nuovamente la visita di Edipo, adesso cieco e in compagnia della figlia-sorella Antigone, e ascolta le sue drammatiche  parole, tutto le appare sotto una nuova luce. Le sue certezze di colpo crollano e, accortasi di essere anche lei zoppa, proprio come Edipo4, inizia, già prossima alla morte, il suo personale cammino di ricerca.

Se le profezie, frutto della fantasia, pura invenzione e in certi casi addirittura vere e proprie macchinazioni, non sono vere ma qualche volta si avverano, cosa si deve credere? Cosa ha rappresentato realmente la sua vita? Edipo ha veramente ucciso suo padre e sposato sua madre? Cosa è realmente accaduto? Da questo preciso istante, al cospetto della Sacerdotessa sfilano tutti i protagonisti del dramma edipico, da Tiresia alla Sfinge, da Laio a Giocasta. Ma, come ben presto scopre la Pizia, ognuno di essi ha una propria verità da difendere, ognuno ha fissato la propria vita ad un evento, ad un’immagine. Così che non è poi tanto certo se Edipo si sia veramente macchiato di questi orrendi crimini per i quali si è punito accecandosi né se sia lui il vero Edipo. A mano a mano che, attraverso il susseguirsi dei racconti, assistiamo al mutare continuo della storia che credevamo di conoscere, scopriamo insieme alla Pizia che la verità di Edipo non è che una delle tante possibili.

La verità è individuale e non regge alla tensione. La verità, quella con la lettera maiuscola, è un impossibile, sostiene Dürrematt per bocca dei suoi personaggi. Sì, la verità resiste ma, come in un gioco di tensioni, non appena l’equilibrio si rompe, l’uomo perde ogni appiglio. Tutto rovinosamente si distrugge e le domande invece di chiarirsi si moltiplicano. L’unica certezza che l’uomo possa sperare di far propria non è più una risposta, qualunque essa sia, ma sempre una domanda, l’eterno ritorno di quell’enigma al quale è destinato a non poter rispondere. La Pizia muore così come Edipo scoprendo di essere stata solo un “cieco” strumento nelle mani di un dio, il dio del destino direbbe Bion, “ostile alla ricerca di conoscenza da parte dell’umanità”5.

Non ci saremmo soffermati tanto a lungo su questo racconto di Dürrenmatt se la storia che vi si narra non fosse una tra le tante6 che hanno ridato vita ad uno dei più fortunati miti dell’antichità classica, quello di Edipo. Ma soprattutto non ce ne saremmo interessati se tutto questo non avesse una stretta relazione con il concetto di verità in psicologia e, in particolare, in psicoanalisi. Cos’è la verità dal punto di vista psicologico? In che modo alcuni importanti teorici l’hanno considerata? Esiste una verità psicologica? È importante per uno psicologo fondare le proprie riflessioni e interpretazioni sul concetto di verità? Queste, alcune delle domande alle quali cercheremo di fornire una risposta ma che, con maggiore probabilità, come Dürrenmatt ci insegna, ci apriranno a nuovi interrogativi.

La psicoanalisi rappresenta senza dubbio quella disciplina che più di ogni altra ha contribuito a mutare le forme dell’immaginario collettivo del Ventesimo secolo. Ad opera di Freud un mito, quello di Edipo, è tornato prepotentemente a rivivere7 (se mai si fosse assopito), non più però tra le scene di un teatro greco bensì nelle fantasie e nei risvolti conflittuali della vita e della psiche dell’uomo occidentale moderno. Freud riconobbe un proprio mito personale8, un proprio conflitto psicologico legato ad una fantasia incestuosa ma, utilizzando la storia di Edipo, seppe trasformarlo in un nuovo modello concettuale. I miti rappresentano “un’espressione sintetica delle teorie psicoanalitiche”9 e, allo stesso tempo, forniscono una modalità indiretta, allusiva e analogica per sostenere una verità10, una verità che un’arida concettualizzazione teorica non sarebbe in grado di rendere. Freud fu il primo a riconoscere questa verità, una verità fondatrice per la psicologia del profondo, sostiene Hillman, vale a dire che “i miti mostrano la nostra psicologia… in vesti antiche”11.

Sarà Jung però, sempre a detta di Hillman, a individuare le implicazioni contenute nella scoperta freudiana del rapporto esistente tra mito e psiche, così come tra mondo antico e psicologia moderna12. Non entreremo qui nel merito di questa polemica, poiché esula dai nostri fini, ma ci limiteremo a ripercorrere qualche traccia di un viaggio che, come quello compiuto da Dürrenmatt tra i labirintici risvolti dell’Edipo sofocleo, è costellato da infiniti ribaltamenti di fronte e da sempre nuove aperture.

Una verità psicologica, sostiene Jung, riguarda tutto ciò che attiene alla psiche, allo stesso modo in cui una verità fisica è circoscritta alla materia13. La psiche “si estende in tenebre” che vanno ben “al di là delle nostre categorie intellettuali”; essa “contiene non meno enigmi di quanti ne abbia l’universo con le sue galassie, di fronte al cui sublime aspetto soltanto una spirito privo di fantasia può non riconoscere la propria insufficienza”14.

Ma allora come illuminare queste tenebre se tale è la loro oscurità? Freud ci propone un metodo che risulta analogo a quello fatto proprio da Edipo15: il metodo dell’investigazione, della ricerca razionale, il metodo ermeneutico. Lo scopo dell’analisi16, come spiega lo stesso Freud in uno dei suoi ultimi scritti, Costruzioni nell’analisi, è quello di permettere al paziente di rinunciare alle rimozioni, quelle rimozioni che hanno costellato il suo sviluppo psicologico ma che adesso ne impediscono l’ulteriore evoluzione.

Per realizzare questo obiettivo il lavoro dell’analista dovrà consistere in un’opera di ricostruzione a partire dalle tracce del passato del paziente che in analisi tornano alla luce e sarà quindi paragonabile a quello di un archeologo che ricomponga un edificio appartenuto ad una civiltà scomparsa attraverso i ruderi ritrovat17i. Il risultato sarà realizzato attraverso continue approssimazioni a mano a mano che il materiale fornito dal paziente consentirà  di dar vita a nuove interpretazioni le quali, a loro volta, andranno a costituire i singoli tasselli del lavoro di costruzione. L’analista sa che la sua ri-costruzione dei meccanismi sottostanti l’attività psichica del paziente non potrà “andar oltre un certo grado di verosimiglianza”18. Gli eventi clinici che seguiranno l’esposizione al paziente del frutto delle sue congetture gli forniranno una convalida indiretta dell’esattezza della sua formulazione19. Naturalmente non è poi così facile ottenere una verifica del proprio lavoro. A volte dopo un periodo di attività clinica che sembrava aver condotto fuori strada, l’analista si rende conto “di aver preso un carpione di verità proprio con un’esca di falsità”20

In altri casi all’esattezza della costruzione dell’analista faranno seguito paradossalmente comportamenti difensivi del paziente, come ad esempio aggravamenti sintomatici, che lo metteranno al riparo da ogni possibile cambiamento, sia pure un cambiamento positivo per la sua vita. Quando, al contrario, nel comportamento e negli atteggiamenti del paziente non cambia nulla, probabilmente l’analista sarà lontano dalla verità21.

Apparentemente, l’intento che muove la ricerca di Freud è dunque un intento teso a “svelare le intime relazioni fra il materiale del rinnegamento presente e quello della rimozione avvenuta nel passato”22.

Congiuntamente la sua indagine segue le tracce non della verità assoluta bensì quelle delle singole verità storiche, quelle stesse che si celano nelle formazioni deliranti degli psicotici o in quelle dell’intera umanità, nella misura in cui anch’essa come il singolo individuo ha dato vita a costruzioni che contraddicono palesemente la realtà. Sarà Jacques Lacan a riportare prepotentemente alla luce il fantasma che si agita sotto la coltre delle formulazioni teoriche di Freud e della psicoanalisi in genere. Dice Lacan, e riporto di seguito le sue parole perché mi sembrano dare l’esatta portata del suo pensiero, che “la via aperta da Freud non ha altro senso che quello che io (Lacan)  riprendo: l’inconscio è un linguaggio”23.

La genialità di Freud non è consistita per Lacan nella scoperta dell’inconscio e del grimaldello per accedere al funzionamento dell’attività psichica umana, ma nel riconoscimento che la verità è morta per il pensiero24 ed è nata nella parola25. La verità trae garanzia non dalla realtà, così come ritiene l’atteggiamento positivista, ma dalla parola e da questa riceve il marchio che la colloca in una struttura di finzione26. Sì perché la verità, come ben sapeva Eraclito, ama nascondersi e, come aggiunge un nostro insigne contemporaneo, Martin Heidegger, proprio attraverso tale nascondimento essa si offre ai suoi amanti nel modo più vero. Con la scoperta dell’ambiguità celata nel discorso delle pazienti affette da isteria, Freud scopre “l’effetto di verità che si dà nell’inconscio e nel sintomo”27.

Così, sostiene ancora Lacan per spiegare la portata del discorso freudiano, “m’è venuta l’ispirazione che, vedendo nella vita di Freud una figura allegorica animarsi stranamente, e fremere in una nuova pelle colei che ci s’immagina nuda,io le avrei prestato la mia voce… Prestare la mia voce per sostenere queste parole intollerabili: “Io, la Verità,parlo…” supera l’allegoria. Ciò vuol semplicemente dire tutto quello che c’è da dire della verità, la sola, e cioè che non c’è metalinguaggio (affermazione fatta per situare tutto il positivismo logico), che nessun linguaggio saprebbe dire il vero sul vero, perché la verità si fonda sul fatto che parla, e non ha altro modo per farlo”28.

La verità parla, dunque, e lo fa attraverso l’inconscio, un inconscio strutturato come un linguaggio. E questo perché Freud, sotto il nome di inconscio, ha saputo lasciar parlare la verità29. La psicoanalisi deve farsi carico, sostiene Lacan, dell’entità del compito che è chiamata ad assolvere anche grazie alle conoscenze che dopo Freud sono state acquisite30.

Bion, diversamente da Freud, pone apertamente in primo piano la questione della verità ultima, della verità assoluta, della divinità, dell’infinito, della cosa in sé. La indica con il segno O, sostenendo che O “non ricade nel dominio della conoscenza o dell’apprendimento se non in modo casuale; esso può essere “divenuto” ma non può essere conosciuto”31.

Per l’attenzione che Bion dedica a questo tema può essere messo a confronto con Lacan, le cui posizioni abbiamo più sopra esposto, quando gioca con l’allegoria “Io, la Verità, parlo”. L’analista e così la psicoanalisi deve incentrare la propria attenzione su O, nella sua valenza di ignoto e inconoscibile32. O rappresenta e deve sempre rappresentare il vertice psicoanalitico33, intendendo con vertice quello che Lacan chiamerebbe posizione analitica. In questa posizione che dà testimonianza del rigore etico che Bion come analista si impone egli trova le condizioni per mettersi all’unisono con O, all’unisono con la propria verità e con quella del paziente. Questa condizione è la sola che consentirà all’analista di effettuare “trasformazioni O – K”34, trasformazioni capaci di trasmettere la conoscenza acquisita “su” qualcosa di cui si è fatta personalmente esperienza (leggi interpretazione). La  sospensione della memoria, del desiderio e della comprensione che l’analista opera nel setting non solo dà luogo ad un’amplificazione del suo stato di coscienza o, come dice Bion, lo fa “diventare infinito”; ma, allo stesso tempo, lo espone allo “spaventoso demonio”, a quel timore panico e indifferenziato che coglie il viandante quando percorre una strada solitaria, il timore dell’essere soli di fronte all’ignoto, sia che l’ignoto rappresenti “la ricerca della verità che la difesa attiva contro di essa”35.

Quando Bion sostiene la necessità di porsi all’unisono con O, afferma, allo stesso tempo, che la verità non può essere conosciuta attivamente. Questo fa luce anche sull’apparente enigmaticità dei “pensieri senza pensatore” e della “bugia” come unica forma di pensiero necessitante di un pensatore, vale a dire di qualcuno che invece di lasciarsi attraversare dall’idea compia un’azione per produrla. Se la verità si dà solo a chi si pone nella condizione di accoglierla, la menzogna prolifica in tutte le altre circostanze. Prendendo spunto dalla tradizione greca, Bion non contrapporrà però la verità alla menzogna bensì all’oblio, al coprimento e all’ignoranza36. Nella pianura di Aletheia, come Nando Riolo ci ricorda, alle menti assetate di conoscenza è data la possibilità di contemplare qualche verità. In questo prato “focolare comune a tutti i mondi”, si trova il vero nutrimento dell’anima. Se però invece di contemplare anche solo una piccolissima verità, l’anima non vede nulla o cade vittima dell’inganno, sarà fatta preda dell’oblio ed entrerà nel ciclo incessante delle rinascite o, detto in termini analitici, della coazione a ripetere. Il mito, in sostanza, non si interessa di ciò che è vero o di ciò che è falso ma al rapporto “tra svelamento e nascondimento”37.

Ma torniamo al mito dal quale siamo partiti, al mito di Edipo e al modo in cui anche in psicanalisi è stato rivisitato. Se come sostiene Jung e con lui lo stesso Bion, ogni interpretazione parla di chi la formula, il mito di Edipo è il mito di chi? È il mito di Sofocle o quello dei Greci che lo rivivevano sulle scene dei loro teatri; di Freud o di Bion che ne darà una seconda rilettura incentrata sulle figure dell’indovino Tiresia e dell’enigmatica Sfinge38; di uno scrittore scrittore come Dürrenmatt o di uno psicanalista polemico e controcorrente come Hillman; è il mito di coloro che adesso stanno leggendo questo testo o di chi, come me, questo testo lo sta scrivendo? Ma se come sostiene Dürrenmatt la verità si fa negare sia a chi la corteggia con le armi della seduzione razionale sia a chi lo insegue con le ali della fantasia39, quando mai potremo scoprire chi racconta la vera storia di Edipo? 

Hillman a questa domanda risponderà che il mito di Edipo è il mito della psicanalisi, è il mito della civiltà moderna40. Nella sua edipicità la psicoanalisi è rimasta lontana dalla verità nella misura in cui il suo metodo porta alla cecità e non all’incorporazione della conoscenza41. O meglio, che la conoscenza psicoanalitica, quella edipica ed ermeneutica, il divenire consapevoli di sé, l’autocoscienza, non evita la tragedia connaturata all’esistere42. Se la psicanalisi non opererà un ribaltamento di prospettiva rimarrà a cieca e ignara dell’esistenza di quello stesso occhio attraverso il quale si origina si compie tutta la sua ricerca. Ma, come lo stesso Hillman ci fa osservare, sarà mai veramente possibile vedere l’occhio attraverso il quale guardiamo o, anche quando pensiamo di averlo individuato, ci stiamo ingannando? E se, come sostiene Bion rivisitando il mito dell’Eden e quello di  Babele, esistesse realmente un dio ostile alla ricerca di conoscenza da parte dell’umanità, sarebbe forse preferibile abbandonare l’idea di essere alla ricerca di una qualsivoglia verità e provare ad immaginare di prendere parte ad un gioco, avendo sempre presente la sua natura di per sé finzionale. Giocare perché, in fondo, “né verità né il senso contano poi molto nel paese dell’Anima”43 ; giocare per il semplice piacere di farlo; giocare a costruire nuovi mondi e nuove regole; giocare a distruggerli e a scardinarle; giocare reinventarsi ogni giorno come mille Edipo diversi, perché non è dato all’uomo scoprire la verità ed è suo destino rimanere in esso irretito. Almeno se le domande sono quelle che l’uomo ha sempre utilizzato. Così, si potrebbe concludere, la stessa psicoanalisi diventerebbe un gioco (naturalmente non per quanto riguarda i suoi risvolti clinici e teorici), un modo di giocare con se stessi e con gli altri, un modo di parlare e di comunicare. In questa forma un po’ scanzonata, come l’Edipo tratteggiato da Dürrenmatt, la psicoanalisi e gli psicoanalisti potrebbero rimettersi in discussione e scoprire che il linguaggio dell’inconscio, così come quello psicoanalitico che sotto quel “nome”, come dice Lacan, ha saputo lasciar parlare la verità, nasconde una menzogna. Ma questa un’altra storia!

Note

  1. F. Dürrenmatt (1976), La morte della Pizia, Milano, Adelphi, 1988, p. 64.
  2. Ibidem, p. 9.
  3. Ibidem, p. 10.
  4. Ibidem, p. 22.
  5. W. R. Bion (1992), Cogitations, London, Karnak Bookshop, p. 82, trad. it. Cogitations-Pensieri, Roma, Armando, 2010.
  6. G. Padano (1994), La lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle è il teatro occidentale, Torino, Einaudi.
  7. C. G. Jung (1912/52), “La libido. Simboli e trasfigurazioni”, in Opere, Torino, Boringhieri, 1965, p. 18.
  8. Per la questione relativa alla distinzione tra mito personale e mito pubblico vedi: W. R. Bion (1963), Elementi della psicoanalisi, Roma, Armando, 1981 e F. Corrao (1992), Modelli psicoanalitici, Bari, Laterza.
  9. W. R. Bion (1963), Elementi della psicoanalisi, op. cit., p.79.
  10. F. Corrao (1992), Modelli psicoanalitici, op. cit., p. 28.
  11. J. Hillman (1987), “Edipo rivisitato”, in K. Kerényi, J. Hillman, Variazioni su Edipo, Milano, Cortina, 1992, p.76.
  12. Ibidem, pp. 76-77.
  13. C. G. Jung (1934), “Anima e morte”, in La dinamica della psiche, Opere, vol. 8, Torino, Boringhieri, 1976, p. 440.
  14. Ibidem, p. 444.
  15. J. Hillman (1987), “Edipo rivisitato”, in K. Kerényi, J. Hillman, Variazioni su Edipo, op. cit.
  16. S. Freud (1937), “Costruzioni nell’analisi”, in Opere, vol. 11, Torino, Boringhieri, 1979, pp. 541-542.
  17. Ibidem, p. 543.
  18. Ibidem, pp. 543-544.
  19. Ibidem, p. 546.
  20. Ibidem.
  21. Ibidem, p. 549.
  22. Ibidem, p. 552.
  23. J. Lacan, “La scienza e la verità”, in Scritti, vol. II, Torino, Einaudi, 1974, p. 871.
  24. J. Lacan, “La cosa freudiana”,  in Scritti, vol. I, Torino, Einaudi, 1974, p. 401.
  25. J. Lacan, “Funzione e campo della parola e del linguaggio”, in Scritti, vol. I, op. cit., p. 249.
  26. J. Lacan, “Soggetto e desiderio nell’inconscio freudiano”, in Scritti, vol. II, op. cit., p. 810.
  27. J. Lacan, “Un disegno”, in Scritti, vol. I, op. cit., p. 359.
  28. J. Lacan, “La scienza e la verità , in Scritti, vol. II, op. cit., pp. 871-872.
  29. Ibidem, p. 872.
  30. J. Lacan, “Un disegno”, in Scritti, vol. I, op. cit., p. 359.
  31. W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Roma, Armando, 1982, p. 39.
  32. Ibidem, p. 40.
  33. Ibidem.
  34. Ibidem, p. 52.
  35. Ibidem, p. 66.
  36. Vedi in proposito il bellissimo articolo di M. Bernabei (1993), “Miti e simboli di Bion: Tiresia-Palinuro”, in Metaxù, n. 16, pp. 57-76.
  37. F. Riolo (1983), “Il pensiero analitico tra verità e bugia”, in W. R. Bion, Seminari italiani, Roma, Borla, pp. 714-715. 
  38. Vedi in proposito F. Corrao (1992), Modelli psicoanalitici, op. cit.
  39. F. Dürrenmatt (1976), La morte della Pizia, op. cit., pp. 66-67.
  40. J. Hillman (1987), “Edipo rivisitato”, in K. Kerényi, J. Hillman, Variazioni su Edipo, op. cit., p. 107.
  41. Ibidem, pp. 112-126.
  42. Ibidem, p. 107.
  43. Ibidem, pp. 133-134.

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