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Diritto alla bigenitorialità. Nota alla Sentenza di Cassazione civile sez. I – 19/05/2020, n. 9143

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La parola all'Avvocato

Diritto alla bigenitorialità. Nota alla Sentenza di Cassazione civile sez. I – 19/05/2020, n. 9143

Lucia Elsa Maffei
Avvocato del Foro di Matera, Presidente ONDIF sez. di Matera

Il diritto alla bigenitorialità tra esigenza di tutela delle vittime di violenza domestica e tutela della relazione genitoriale, da condotte strumentali ed alienanti; uno scenario sempre più ricorrente nei contenziosi familiari, nel quale sono chiamati a pronunciarsi, spesso con una sovrapposizione di ruoli e competenze, diversi operatori del diritto: dai giudici, ai CTU, ai servizi sociali.   

Nota a Cassazione civile sez. I – 19/05/2020, n. 9143 

Il caso

Il caso di specie, oggetto dell’interessante pronuncia della Suprema Corte, ha ad oggetto la travagliata vicenda riguardante la regolamentazione dell’affidamento di un figlio nato fuori dal matrimonio da due genitori che, cessata la convivenza ed essendo in forte conflittualità tra loro, chiedono all’autorità giudiziaria una pronuncia su regime di affidamento del figlio.  

Nonostante un primo provvedimento del Tribunale per i minorenni di Lecce, emesso a seguito di un ricorso ex art. 317 bis cc., nella vecchia formulazione, con cui era stato disposto l’affidamento del minore al Servizio sociale del Comune e la previsione dell’immediato avvio di un percorso di mediazione per l’ attenuazione della conflittualità tra i genitori- senza purtroppo alcun esito positivo- il padre del minore, proponeva un ricorso dinanzi al Tribunale per i minorenni di Lecce, con richiesta di provvedimenti ablativi/ limitativi della responsabilità genitoriale nei confronti  della madre ex art. 333 c.c. lamentando l’impossibilità di esercitare il diritto alla bi-genitorialità ed il ruolo di genitore e quindi l’impossibilità di poter frequentare il figlio e mantenere con lui rapporti  costanti, continuativi e significativi a causa della condotta ostruzionistica della madre. Quest’ultima si costituiva nel procedimento, contestando l’assunto paterno, adduceva che il figlio rifiutava i contatti con il padre, avendo  assistito a numerosi episodi di violenza posti in essere dal ricorrente nei confronti della madre, episodi per i quali pendevano anche dei giudizi penali.  

Il Tribunale per i minorenni, all’esito del procedimento, disponeva il collocamento del padre e del figlio presso un’idonea comunità educativa; la madre proponeva reclamo dinanzi alla Corte d’appello di Lecce che respingeva il reclamo, anche in considerazione della circostanza che la reclamante non aveva mai ottemperato ai diversi e precedenti provvedimenti adottati sia dal Tribunale di Lecce che dalla Corte e che erano falliti i vari tentativi compiuti dal Servizio sociale per avviare un progetto di mediazione e di sostegno alla genitorialità. La decisione della Corte di merito, aderiva alle conclusioni della relazione dei CTU in primo grado, da cui era emersa l’oggettiva difficoltà per il minore di accettare la separazione tra i genitori e la necessità di uno specifico intervento di un neuropsichiatra infantile, di un percorso di psicoterapia individuale per il trattamento della personalità delle parti, al fine di approfondire alcuni vissuti traumatici della madre che a detta dei Consulenti d’ufficio, avevano inciso  sul processo di “dipendenza” attivato con il figlio. D’altronde anche le relazioni trasmesse dai Consultori familiari e dal neuropsichiatra avevano confermato il rifiuto del minore di interagire con il padre a causa di un condizionamento da parte di figure parentali ed in primo luogo della madre. Ciò aveva indotto la Corte ad escludere la necessità di disporre una nuova c.t.u., rilevando che le relazioni degli operatori delle strutture socio-sanitarie coinvolte, constatate le problematiche personologiche della madre, avevano concordemente evidenziato la necessità di favorire la relazione tra il minore ed il padre, in autonomia rispetto alla madre, che invece aveva sempre mostrato sostanziale chiusura verso ogni progetto di mediazione e recupero della genitorialità, a causa di sentimenti personali di rifiuto nei confronti dell’uomo. 

Pertanto, la Corte di merito confermava le misure adottate in primo grado, limitative della responsabilità genitoriale della madre ai sensi dell’art. 333 c.c., dichiarando anche che i comportamenti penalmente rilevanti ascritti dalla madre al padre, in assenza di una pronuncia giudiziaria quanto meno di primo grado, non potevano essere considerati rilevanti e dirimenti. Pertanto, l’unica soluzione ancora percorribile per ristabilire i rapporti tra padre e figlio, si profilava essere l’inversione del collocamento, stabilento la collocazione del minore con il padre, in una comunità educativa, in conseguenza della mancata modificazione nel tempo dell’atteggiamento della donna, che non aveva mai mostrato la volontà di mutare prospettiva, nell’interesse del minore. La madre proponeva quindi ricorso per cassazione. 

La decisione della Corte di Cassazione

La sentenza in commento, si profila interessante sotto un duplice profilo: 

  1. Da un punto di vista squisitamente processuale perché, preliminarmente, respinge l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione formulata dalla ricorrente, in relazione ad un provvedimento della Corte di merito emesso a definizione di un procedimento di reclamo a carattere non propriamente contenzioso, che per lungo tempo nella giurisprudenza consolidata, data la sua natura provvisoria e suscettibile di essere modificato, è sempre stato ritenuto inidoneo ad acquistare efficacia di giudicato seppur rebus sic stantibus.(1)

La Suprema Corte, rimeditando il proprio precedente orientamento, anche alla luce delle modificazioni normative introdotte in materia di filiazione dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219 e dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, riconosce nuovamente in questa ordinanza (2), la proponibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con cui, in sede di reclamo, la corte d’appello abbia confermato modificato o revocato, provvedimenti de potestate adottati dal tribunale per i minorenni ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., osservando che “tali provvedimenti hanno carattere decisorio e definitivo, in quanto incidenti su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, nonchè revocabili o modificabili solo in presenza di fatti nuovi, e pertanto idonei ad acquistare efficacia di giudicato rebus sic stantibus (cfr. Cass., Sez. Un., 13/12/2018, n. 32359; Cass., Sez. I, 25/07/2018, n. 19780; 21/11/2016, n. 13633). 

In questa pronuncia, la Corte ribadisce tale principio, ritenendolo applicabile anche a provvedimenti come quelli che dispongano l’affidamento del minore ai servizi sociali come ad es. nel caso di specie, ed anche se tali provvedimenti abbiano natura non completamente ablativa, ma solo limitativa della responsabilità genitoriale. La ragione riposa secondo la Suprema Corte, nella idoneità di tali provvedimenti ad incidere in modo irreversibile o stabile sulle modalità di esercizio della stessa, poiché la quantità della limitazione del’esercizio della responsabilità, genitoriale, non rileva ai fini della qualificazione giuridica del provvedimento (cfr. Cass., Sez. I, 12/11/2018, n. 28998).  Infatti nel caso concreto, il decreto impugnato, con il quale la Corte d’appello decidendo sul reclamo proposto dalla ricorrente, confermava il collocamento del controricorrente e del figlio minore presso una comunità educativa, ai sensi dell’art. 333 c.c., secondo la Suprema Corte non può ritenersi avente un carattere meramente provvisorio ed urgente e quindi non ricorribile in Cassazione. Ciò perché non prevedendo comunque una soluzione definitiva – od un termine massimo di durata del collocamento del minore e del padre presso la comunita’ educativa ndr – risulta comunque idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sulle posizioni delle parti, essendo destinato ad operare almeno fino a quando non venga meno la conflittualità che caratterizza attualmente i rapporti tra le stesse (cfr. Cass., Sez. VI, 24/ 01/2020, n. 1668).

Si tratta quindi di un orientamento che va consolidandosi e che colma un vuoto di tutela in questo ambito molto delicato, in relazione ai provvedimenti ablativi / limitativi della responsabilità genitoriale adottati dai Tribunali per i minorenni e dalle Corti di merito in sede di reclamo, con procedimento camerale ex art. 737 ss. cod. proc. civ., i quali nonostante la loro attitudine a regolamentare anche per periodi molto lunghi, le  modalità, la qualità e la quantità delle relazioni tra genitori e figli e quindi l’esercizio del ruolo genitoriale e del diritto inviolabile alla bigenitorialità, in base al precedente e consolidato orientamento che ne escludeva la ricorribilità in Cassazione, finivano per essere immodificabili ad libitum, o quanto meno, solo in presenza di circostanze nuove e sopravvenute a carattere rilevante. 

Ma id quod plerumque accidit, in situazioni del genere, è difficile che nel corso di breve tempo si possano verificare circostanze sopravvenute talmente rilevanti da modificare il quadro della situazione e rendere possibile una modifica dei provvedimenti già emanati. Al contrario, l’approdo della Corte di legittimità nel senso suindicato, consente una tutela piena esplicantesi nel terzo grado di giudizio, per censurare eventuali profili di illegittimità che attingono i provvedimenti aventi ad oggetto misure ablative / limitative della responsabilità genitoriale, emessi dai Tribunali per i minorenni; e a volte, i vizi di legittimità da cui sono affetti, incidono in modo irreversibile su diritti inviolabili e di rango costituzionale, quale il diritto alla relazione genitoriale, anche in conseguenza della particolarità del rito sommario – camerale che come è noto, non garantisce appieno il diritto di difesa, il diritto del contraddittorio e il diritto al giusto processo. D’altronde con la novella della Legge n. 219/2012 che ha modificato l’art. 38 disp. att. c.c., attribuendo alla competenza del giudice ordinario i procedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale se sia già pendente fra le stesse parti (cioè fra i genitori) un procedimento di separazione personale o di divorzio od un giudizio ai sensi dell’art. 316 c.c., sarebbe ancora più stridente e  contraddittorio, continuare ad operare una distinzione, come per troppo tempo accaduto, fra i provvedimenti assunti in sentenza dal giudice ordinario ai sensi dell’art. 337 bis e ss. c.c. ritenuti reclamabili e quelli assunti con la medesima sentenza, ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c. attribuendo solo ai primi, e non anche ai secondi, attitudine al giudicato rebus sic stantibus. (3) 

Ad identiche conclusioni, deve giungersi con riguardo ai provvedimenti ablatori o limitativi della responsabilità genitoriale emessi dal Tribunale per i minorenni, non potendo la disparità di trattamento fra situazioni identiche, trovare giustificazione nella speciale competenza attribuita a tale organo giurisdizionale. Una riflessione ulteriore però si impone: sembra permanere purtroppo, un grave vulnus e vuoto di tutela, rispetto ai provvedimenti provvisori e urgenti emessi dai Tribunali per i minorenni nel corso dei procedimenti de potestate (quindi diversi e precedenti ai decreti che definiscono il giudizio) o rispetto ai provvedimenti provvisori e urgenti emessi dai Tribunali ordinari, nell’ambito dei procedimenti aventi ad oggetto i figli nati fuori dal matrimonio, i quali a dispetto della riforma epocale sull’equiparazione dello status filiationis (tra figli matrimoniali e non matrimoniali) sancita dalla novella del d.lgs. 154/2013, sono regolamentati dal rito camerale e non beneficiano della possibilità del reclamo dinanzi alla Corte d’Appello, come accade invece per le ordinanze presidenziali ex art. 708 ult. comma c.p.c, emesse in sede di separazione e/o  divorzio. 

Persiste quindi, un regime di tutela differenziata che discrimina ancora i figli nati fuori dal matrimonio, rendendo anche in questo caso, impossibile censurare nell’immediatezza, provvedimenti in tema di regolamentazione dell’affidamento dei figli minori, cui si aggiungono misure di limitazione / sospensione della responsabilità genitoriale che purtroppo, a volte, perdurano nel tempo esplicando i propri effetti per anni, incidendo irrimediabilmente e irreversibilmente su diritti e posizioni soggettive inviolabili e tutelate da numerose norme sovranazionali e internazionali, a causa del protrarsi dell’istruttoria (c.t.u. sulla capacità genitoriale, indagini e monitoraggi da parte dei Servizi sociali ecc., percorsi di sostegno alla genitorialità).

Tutto ciò, nonostante vi sia stata una pronuncia importantissima della Suprema Corte (4),  forse non troppo attenzionata dai commentatori, con cui il Collegio ha ritenuto ammissibile il ricorso in Cassazione avverso un decreto di rigetto in sede di reclamo emanato dalla Corte d’Appello di Trieste, contro un decreto provvisorio emesso dal TM di Trieste. La Corte di Cassazione, ha infatti richiamato l’orientamento secondo cui, il decreto della Corte d’Appello, ove contenga provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, è ricorribile in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. «poiché già nel vigore della l. 8 febbraio 2006, n. 54 – che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio – ed a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 154/2013 – che ha abolito ogni distinzione – al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile “rebus sic stantibus” a quella del giudicato» (v., da ultimo, Cass. Civ. n. 28998/18). 

In sostanza la Suprema Corte con l’ordinanza in oggetto, ha ritenuto che anche i provvedimenti provvisori emessi nell’ambito dei giudizi ex art. 330 e 336 c.p.c. sono immediatamente reclamabili, in quanto tutti i provvedimenti emessi nei procedimenti c.d. de potestate ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c. che si concretizzino in misure ablative o limitative della responsabilità genitoriale, emessi dal giudice minorile benché privi di natura contenziosa, «hanno attitudine al giudicato rebus sic stantibus in quanto non revocabili o modificabili, salva la sopravvenienza di fatti nuovi».  Ciò che rileva ai fini della ricorribilità in Cassazione, come afferma la Corte, non è la circostanza che il decreto del TM sia provvisorio o sia emesso a definizione del procedimento  de potestate, poiché questo non ne altera gli effetti né la diretta incidenza,in entrambi i casi (provvisorio/definitivo), sulla relazione genitoriale, sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, sul diritto alla bigenitorialità e quindi su diritti personalissimi di rango costituzionale.

In conclusione, le due pronunce della Suprema Corte, quella in commento e quella del 2019, chiudono un cerchio da cui forse rimangono fuori solo i provvedimenti provvisori emessi dal TO nell’ambito dei procedimenti per la regolamentazione del’affidamento dei figli non matrimoniali, che si concretizzino in misure ablative/ limitative ex artt. 330 e 333 c.c. 

Sarebbe auspicabile quindi, preso atto di questo importante arresto della Suprema Corte che si giungesse a prevedere per i decreti provvisori emessi dal TO nell’ambito dei procedimenti per la regolamentazione del’affidamento dei figli non matrimoniali, che si concretizzino in misure ablative/ limitative ex artt. 330 e 333 c.c., non solo la reclamabilità dinanzi alle Corti di merito – in analogia a quanto previsto dall’art. 708, ultimo comma c.p.c. per i procedimenti di separazione e divorzio e quindi per i figli matrimoniali, necessitando però una modifica legislativa visto il principio della tipicità dei mezzi di impugnazione – ma anche la ricorribilità in Cassazione, al pari di quanto ormai consentito avverso i decreti – sia provvisori che emessi a definizione dei giudizi de potestate– dinanzi ai TM.   

2) La seconda questione attiene all’incidenza o rilevanza delle vicende penali, nei giudizi civili aventi ad oggetto le capacità genitoriali e la scelta del miglior regime di affidamento per i figli minori, allorchè uno dei due genitori (a volte purtroppo, entrambi a seguito di reciproci atti querelatori), siano imputati di reati a rilevanza familiare (maltrattamenti, violenza sessuale, violenza assistita, stalking ecc.). La ricorrente censura infatti con il primo motivo di doglianza, la violazione di numerose norme (art. 337-ter c.c., art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176, art. 32 Cost.), in quanto il decreto della Corte d’Appello non avrebbe affatto tenuto conto dei fatti penalmente rilevanti, come denunciati dalla stessa, oggetto di ben tre giudizi penali pendenti seppur non definiti con una sentenza di primo grado. In altre parole, la ricorrente si duole, perché la Corte di merito avrebbe fondato la propria decisione sulla presunzione d’innocenza dell’imputato, che però non avrebbe rilevanza nel procedimento civile, i cui accertamenti in punto di fatto prescinderebbero da tale presunzione e soprattutto imporrebbero la tutela del superiore interesse del minore, tenendo conto del principio civilistico del “più probabile che non”, anzichè secondo quello penalistico della certezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.

La Cassazione, ritiene il motivo infondato ed afferma che pur avendo la Corte di merito richiamato impropriamente la presunzione d’innocenza, operante esclusivamente in sede penale, non ha ignorato la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili della figura paterna, ma ha negato ad essi, un carattere decisivo in quanto da un lato non ancora accertati con sentenza di  primo grado, dall’altro perché la Corte di merito avrebbe comunque effettuato un’autonoma valutazione dei fatti e dei comportamenti, giungendo alla conclusione di ridimensionarne la portata, sia sotto il profilo materiale che sotto quello della potenziale dannosità per l’equilibrato sviluppo psicofisico del minore. E dunque, secondo la Corte, non appaiono violate le norme a tutela dell’interesse superiore del minore inteso come criterio guida e bussola fondamentale di valutazione, cui si devono ispirare tutte le decisioni riguardanti l’affidamento e la protezione dello stesso. Né sarebbero stati violati il principio di autonomia e separazione, cui sono improntati i rapporti tra processo civile e processo penale  secondo la regola per cui “al di fuori delle ipotesi di sospensione necessaria e delle altre previste dagli artt. 651 c.p.p. e segg., aventi carattere derogatorio, il processo civile, anche se riguardante un diritto il cui riconoscimento dipenda dall’accertamento degli stessi fatti materiali che costituiscono oggetto di un giudizio penale, prosegue il suo corso senza essere influenzato da quest’ultimo, ed il giudice civile, pur potendo utilizzare gli elementi di prova acquisiti in sede penale, accerta autonomamente i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico, senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni adottate dal giudice penale (cfr. Cass., Sez. VI, 3/07/2018, n. 17316; Cass., Sez. lav., 12/01/2016, n. 287; 10/03/2015, n. 4758). 

Sul punto, a seguito dell’Ordinanza in oggetto, l’A.I.C.P. (5)  ha ritenuto di elaborare un documento finalizzato a proporre l’individuazione di buone prassi in merito all’intervento del CTU nei procedimenti di separazioni e divorzio ed in genere di conflitto familiare, per poterlo perimetrale, dettagliandone la responsabilità, la specificità ed i limiti del suo operato in quanto ” al CTU non spetta compiere attività di tipo istruttorio poiché l’accertamento dei fatti attiene unicamente all’ambito penale ed al Giudice, nel rispetto del contraddittorio e delle regole del giusto processo. Nel diritto processuale civile la consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo di prova bensì uno strumento per valutare tecnicamente dati la cui prova sia già stata assunta, nonché per fornire elementi diretti di giudizio. Il c.p.c. descrive il CTU come un assistente, ausiliario del Giudice e che solo dal Giudice può essere delegato a compiere determinate attività accertative in proprio (artt. 61, 193, 194. Al CTU compete esprimere una valutazione sulle problematiche relazionali da lui direttamente osservate senza provvedere ad alcuna ricostruzione “storica” degli avvenimenti che siano oggetto di indagini penali, ad eccezione di quella effettuata dalla lettura degli atti previsti nel quesito postogli dal Giudice. Prenderà altresì atto di eventuali sentenze pronunciate dall’autorità giudiziaria o dell’emissione di ordini di protezione.”

Il principio affermato dalla Corte di legittimità, può essere dirimente per molti procedimenti di separazione, divorzio od aventi ad oggetto la regolamentazione dell’affidamento dei figli non matrimoniali, in cui spesso i coniugi o i genitori si accusano di condotte violente, abusanti, maltrattanti – che risultano purtroppo infondate e strumentali in una percentuale statisticamente significativa –  al sol fine di “ condizionare” le decisioni sull’affidamento dei figli. Se in tali casi, l’affermazione della piena autonomia e del pieno vaglio critico del giudice civile rispetto al giudice penale, può impedire l’adozione di provvedimenti di limitazione / sospensione della responsabilità genitoriale nei confronti di genitori meramente indagati o imputati, dall’altro lato però un dubbio sorge spontaneo e si impone una riflessione. 

Con la Legge n. 69 /2019 più nota come “Codice rosso”, l’art. 14 comma 1, interviene sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, per inserirvi l’art. 64 bis c.p.p in base al quale, se sono in corso procedimenti civili di separazione dei coniugi o cause relative ai figli minori di età, o alla “ potestà “ genitoriale ( rectius ormai responsabilità genitoriale)”, il giudice penale deve trasmettere, senza ritardo, al giudice civile, copia dei seguenti provvedimenti, adottati in relazione ad un procedimento penale per un delitto di violenza domestica o di genere: ordinanze relative a misure cautelari personali, avviso di conclusione delle indagini preliminari, provvedimento di archiviazione, sentenza. Orbene, sembra difficile conciliare fino in fondo questa norma, con il principio richiamato dall’Ordinanza in commento della Cassazione, nel punto in cui ribadisce riaffermandolo, un principio peraltro consolidato, secondo cui il giudice civile “accerta autonomamente i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico, senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni adottate dal giudice penale”. Se infatti è condivisibile, in linea di principio, l’autonomia ed il vaglio critico del giudice civile, non è molto comprensibile come, l’assenza di vincoli rispetto alle soluzioni e ai provvedimenti adottati dal giudice penale, possa poi assolvere alla funzione di “ dialogo” e di allineamento, tra procedimento penale e procedimento civile che costituisce la ratio per cui è stata introdotta tale norma nel Codice Rosso. Lo stesso Ufficio del Massimario e del Ruolo della Cassazione, afferma che con la L. 69/2019 “si intende apprestare un meccanismo istituzionale di comunicazione, che prescinde dall’iniziativa delle parti e che permetta al giudice civile di avere elementi di informazione più completi per l’adozione dei provvedimenti in tema di separazione o di potestà genitoriale. La comunicazione delle copie degli atti, pertanto, si risolve in un mezzo di tutela per la vittima di violenza domestica o di genere”. (6)

Ciò farebbe dedurre quindi, che l’autonomia del giudice civile ed il suo vaglio critico, non debbano e non possano mai essere “assoluti”; non possano cioè prescindere completamente dalle risultanze penali. Nel caso di specie infatti, la Corte di merito giustifica la decisione sulla base dell’irrilevanza delle pendenze penali che avrebbero determinato -almeno da quanto sembra emergere dall’ordinanza – la non adozione di misure cautelari restrittive nei confronti del padre del minore, cui si aggiungeva al momento della decisione del giudice civile, la mancanza di una sentenza di condanna penale anche solo di primo grado. Un ulteriore motivo di ricorso, integrante a detta della madre del bambino, l’omessa, insufficiente ed illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sarebbe stata la mancata valutazione del reale e superiore interesse del minore che avrebbe imposto “di procedere, ai fini della scelta delle misure da adottare concretamente, ad un bilanciamento tra i rischi ed i benefici collegati alle diverse soluzioni, nonchè di formulare un giudizio prognostico in ordine alla possibilità ed ai tempi di recupero del rapporto genitoriale ed alla capacità dei genitori di riprendere un ruolo educativo ed affettivo”

Secondo la ricorrente, la Corte di merito avrebbe omesso di considerare se gli effetti della nuova soluzione (cambio di collocazione del minore dalla residenza materna alla comunità educativa con il padre), fossero più o meno traumatiche per il minore, rispetto alla soluzione previgente; ma soprattutto la Corte avrebbe omesso di considerare, secondo la prospettazione della ricorrente, gli enunciati degli artt. 26 e 31 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata con L. 27 giugno 2013, n. 77, omettendo qualunque valutazione prognostica circa la riemersione delle violenze familiari che invece, ai fini della determinazione dei diritti di custodia e di visita dei figli, sono aspetti determinanti onde evitare di compromettere i diritti e la sicurezza delle vititme e dei bambini. 

In realtà sul punto la Corte si limita ad affermare che la soluzione adottata, pur non corrispondendo a quella suggerita dal c.t.u., è stata individuata sulla base di ampi approfondimenti istruttori, demandati sia al consulente che ai servizi sociali, conformemente a quanto prescritto dell’art. 26 della Conv. di Instanbul  per i bambini che siano stati testimoni di ogni forma di violenza e che la scelta di trasferire il minore presso una struttura educativa, “invece di collocarlo direttamente presso il padre, risponde proprio alle finalità di tutela previste dell’art. 31, comma 2, essendo volta ad assicurare una graduale ripresa dei rapporti con la collaborazione e sotto la vigilanza di persone professionalmente qualificate.”Riguardo invece alla presunta “mancata valutazione del reale e superiore interesse del minore” la Corte dichiara il motivo inammissibile, sulla base della considerazione che è principio ormai pacifico che il giudizio prognostico che il Giudice deve compiere su ciascun genitore, al fine di valutarne la capacità/ idoneità ad educare e crescere il figlio, non può prescindere dal rispetto del diritto alla bi genitorialità, pur dovendo tener conto “del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonchè della loro personalità, delle consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che ciascuno di essi è in grado di offrire al minore, non può trascurarsi l’esigenza di assicurare una comune presenza dei genitori nell’esistenza del figlio, in quanto idonea a garantire a quest’ultimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, e a consentire agli stessi di adempiere il comune dovere di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione del minore (cfr. Cass., Sez. I, 8/04/2019, n. 9764; 23/09/2015, n. 18817; 22/05/2014, n. 11412)”  

La Corte di Cassazione, in questo passaggio, afferma quindi in un’ottica paidocentrica, un principio di diritto che può sintetizzarsi nell’equazione tra il diritto alla bigenitorialità e l’interesse superiore del minore. 

Rilevanti secondo il Supremo Collegio, nel caso di specie, le risultanze dell’istruttoria (CTU, relazioni dei Servizi sociali), da cui sarebbe emerso il persistente rifiuto della madre di rapportarsi all’ex convivente, padre del minore, a fronte invece della disponibilità di quest’ultimo a tentare di superare la conflittualità potenzialmente pregiudizievole sullo sviluppo equilibrato del minore. In sintesi, le doglianze materne, lungi dall’evidenziare carenze logico- formali o vizi di motivazione nell’iter logico- giuridico della Corte di merito, si atteggiano come  tentativo per ottenere dalla Corte di legittimità, una nuova valutazione di merito su fatti (quali il distacco dall’ambiente familiare materno o i comportamenti violenti addebitati al padre, nonchè sul parere contrario espresso dal curatore del minore e dal c.t.u.  non aventi carattere vincolante per la Corte di merito) e pertanto insindacabili in sede di legittimità.  Attribuire quindi la preferenza, tra le varie alternative, al collocamento del minore con il padre presso una struttura educativa, ha rappresentato per la Corte di legittimità, la modalità scelta dalla Corte di merito per garantire la realizzazione del miglior interesse del bambino, evitando da un lato, il grave condizionamento psicologico determinato dal continuo contatto con la madre, dall’altro  consentendo il superamento delle problematiche di tipo personologico manifestate dal padre, attraverso adeguati interventi psicoterapeutici e quindi in totale sicurezza per il minore. 

L’ordinanza in esame, ha creato non poche perplessità nel mondo delle associazioni che operano a tutela delle donne e dei minori contro ogni forma di violenza domestica, spingendo la Presidente della Commissione di inchiesta sul Femminicidio e violenza di genere Sen. Valente, ad approvare la richiesta di acquisizione degli atti del procedimento. Ciò che crea perplessita è come si possa conciliare il diritto alla bigenitorialità nei casi di denunciate condotte violente, agite verso l’altro genitore (coniuge o convivente); se cioè il diritto alla bigenitorialità debba prevalere sempre e comunque, anche sul diritto costituzionalmente garantito alla salute ed alla integrità fisica e psichica del minore che abbia anche solo assistito ad episodi di violenza e maltrattamenti in famiglia. 

Ciò che viene contestato infatti, alla pronuncia in esame, è di aver ritenuto prevalente il diritto alla bigenitorialità rispetto all’interesse superiore del minore nel caso di specie, avendo  trascurato la circostanza che il padre del bambino, ex convivente della donna, risulta imputato in ben tre procedimenti per violenza domestica, oltre ad essere stato riconosciuto come portatore di “ problematiche personologiche” che necessitano di “ adeguati interventi psico-terapeutici” e di aver invece stigmatizzato la madre per essersi sempre rifiutata di aderire al percorso di mediazione familiare e di non aver mai modificato atteggiamento e prospettiva nella valutazione dell’ex convivente. In effetti la maggiore criticità, sarebbe proprio incentrata sull’avere, la Corte, completamente disatteso la Convenzione di Istanbul che vieta di ricorrere alla mediazione familiare in presenza di violenze domestiche, perché ciò costringerebbe  una donna vittima di violenza, a mediare con il suo aggressore e si tradurrebbe in una ulteriore forma di violenza e nella c.d. vittimizzazione secondaria, che si verifica quando le Istituzioni non pongono in essere interventi per proteggere in modo efficace e tempestivo la vittima.  

Ma nel caso di specie, le motivazioni del rifiuto della figura paterna da parte del minore, secondo gli accertamenti dei consulenti tecnici nominati, sarebbero derivate dal forte condizionamento materno, a fronte invece delle motivazioni fornite dalla madre che in tutti gli atti processuali ha sempre sostenuto che il figlio avesse assistito alle violenze agite dal padre del bambino e che ciò fosse quindi la naturale conseguenza del comportamento rifiutante del figlio. 

In molte situazioni come queste, l’ago della bilancia è costituito ormai proprio dalle indagini e dagli accertamenti dei c.t.u. esperti psicologi o neuropsichiatri, cui si aggiungono i c.d. monitoraggi sui nuclei familiari da parte degli assistenti sociali che si traducono in relazioni, colloqui e ispezioni domiciliari  che purtroppo, non garantiscono in alcun modo, il rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa. Non si può sottacere il fatto che sempre più frequentemente, i giudici attribuiscono una “ delega in bianco” ai consulenti tecnici d’ufficio, ai quali lasciano sostanzialmente la decisione sulle modalità/ regime di affidamento, sull’individuazione del genitore collocatario, sulla capacità / idoneità del genitore. Ed invece come è noto, la funzione peculiare della CTU è solo quella di coadiuvare ed assistere l´autorità giudiziaria nello svolgimento delle proprie funzioni, quando ciò si rende necessario per compiere atti o esprimere valutazioni che richiedono particolari e specifiche competenze tecniche (art. 61 c.p.c.; artt. 220 e 359 c.p.p.), nel rispetto delle libertà individuali e dei diritti costituzionalmente riconosciuti. In sostanza, il c.t.u. dovrebbe attuare una valutazione sulle dinamiche relazionali dei soggetti coinvolti ed i comportamenti eventualmente contrari al diritto della persona minore d’età a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, al fine di indicare quale sia la situazione più adeguata in merito all’affidamento del minore, nel suo superiore interesse ed in base alle esigenze morali, materiali e psico-evolutive dello stesso. 

Ben altra cosa è l’assunzione dei provvedimenti giudiziari, sia in merito alla modalità ed al regime di affidamento sia in merito alla limitazione/ sospensione/ decadenza dalla responsabilità genitoriale che devono essere sempre, il risultato di una valutazione ed analisi complessiva del Giudice, il quale deve basarsi sull’intero compendio istruttorio, costituito a seconda dei casi, oltre che dalle relazioni peritali, espletate da consulenti dotati di specifiche competenze e professionalità e dall’indagine sociale (che sostanzialmente mira a raccogliere informazioni sulla condizione del minore, sul contesto di relazioni familiari e sociali in cui è inserito), dalle audizioni degli interessati, dalle memorie e dalle allegazioni difensive e documentali delle parti del giudizio, le quali spesso sembrano essere relegati ad elementi secondari e non dirimenti della decisione giudiziaria, rispetto alle conclusioni dei c.t.u., spessissimo recepite acriticamente dall’autorità giudiziaria nonostante le c.d. “osservazioni critiche” dei consulenti di parte o dei difensori, alle quali il c.t.u., difficilmente incline a rivedere in chiave critica il proprio operato, aggiunge i propri “ chiarimenti”, anche questi ritenuti quasi sempre esaustivi da parte del Giudice.   

In questo articolato compendio istruttorio e giuridico, fondamentale è poi l’ascolto del minore, che è una forma di partecipazione al procedimento da parte del minore, inteso ormai come parte del processo e soggetto di diritto, che apporta un contributo all’iter decisionale, poiché attraverso questo strumento il minore partecipa al percorso della propria tutela, finalità principale insita nelle decisioni in tema di affidamento. Il diritto del minore all’ascolto nelle procedure che lo riguardano è un principio sovranazionale, riconosciuto, in primo luogo, dalla Convenzione di New York sui diritti del Fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata con legge 27 maggio 1991 n. 176, e meglio esplicitato dalla Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del Fanciullo 25 gennaio 1996, ratificata in Italia con legge 20 marzo 2003 n. 77, cui si è successivamente ispirata la legge sull’affidamento condiviso 8 febbraio 2006 n. 54, che ha introdotto l’art. 155 sexies c.c. Le norme codicistiche offrono argomenti testuali nel senso che all’ascolto si debba procedere già in fase presidenziale: art. 316 bis: “è ascoltato dal presidente …”, art. 337 octies: “prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti….” Dalle disposizioni in esame si ricava dunque, il principio dell’obbligatorietà dell’ascolto del minore e -non già- la previsione di una mera facoltà, in tutti i procedimenti che lo riguardano, costituendo una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse, salvo che il giudice non ritenga, con specifica e circostanziata motivazione, l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore: motivazione che nel caso de quo, è stata totalmente omessa. (7)

Nel caso di specie, si può solo presumere che essendo stata espletata una c.t.u., il bambino sia stato ascoltato dai consulenti, nei suoi bisogni, disagi, paure, desideri, timori, preoccupazioni. Certo altra cosa è verificare come sia stato ascoltato…ma sul punto, il tema di indagine si amplierebbe a dismisura. Ciò da cui comunque non si può prescindere e’ che l’interesse del minore non può essere inteso in senso astratto, come una formula vuota che spesso dice tutto e niente, quanto piuttosto come il miglior interesse possibile di quel soggetto minore di età, in quella specifica situazione concreta, senza tuttavia pretermettere completamente i diritti degli adulti che sono in relazione con il bambino. D’altronde il tenore testuale della formula nel diritto anglosassone, ossia i best interests of the child, è al plurale e non al singolare, come invece nella traduzione italiana e ciò sta a indicare proprio i diversi e concorrenti possibili interessi, bisogni, esigenze di ogni bambino. Best è infatti il superlativo di good, ossia buono; di conseguenza non è sufficiente garantire la realizzazione ed il soddisfacimento del buon interesse del minore, ma deve trattarsi del migliore, anzi dei migliori interessi, bisogni, della persona minore di età. (8)

Se quindi la società ed anche l’ordinamento giuridico devono sempre più fare i conti con la c.d. liquidità delle relazioni di coppia (9) e con l’uomo senza legami della modernità liquida, intesa come quella fase dell’età contemporanea che si caratterizza per lo stato mutevole e instabile di ogni sua forma organizzativa (famiglia instabile, ricomposta, multipla, informale), si afferma al contempo una sempre maggiore valorizzazione dei legami genitoriali e del rapporto verticale genitore – figlio, che deve portare ad esaminare tutte le possibili soluzioni per consentir il recupero, il mantenimento, il rafforzamento e consolidamento di un rapporto equilibrato e continuativo, tanto più quando vi siano comportamenti ostruzionistici od ostacolanti dell’altro genitore. Ed infatti la Corte di Cassazione in una pronuncia dirimente sul punto, ha affermato che “ Non può esservi dubbio che tra i requisiti di idoneità genitoriale, ai fini dell’affidamento o anche del collocamento di un figlio minore presso uno dei genitori, rilevi la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore….. Tali comportamenti, qualora accertati, pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità e, soprattutto, alla sua crescita equilibrata e serena”. (10)

La fattispecie oggetto dell’Ordinanza in commento, dimostra quindi l’assoluta necessità di un’analisi complessa, delicatissima, competente ed attenta, nei contenziosi familiari, volta da un lato ad apprestare una tutela tempestiva ed efficace dei soggetti più fragili e vulnerabili (donne e minori) nei casi di accertata violenza domestica e, dall’altro lato, a decodificare condotte altrettanto odiose e frequenti, sintetizzabili nel concetto di alienazione parentale o genitoriale che, come accaduto nel caso di specie, per quanto si può apprendere dall’Ordinanza, si concretizza spesso in una serie di condotte più o meno tipiche, ostacolanti, condizionanti, ostruzionistiche della relazione tra un  figlio e l’altro genitore, definibili, non come sindrome clinica ma come disturbo della relazione tra i diversi componenti del nucleo familiare. 

Al riguardo, vi è stata una risposta ufficiale da parte del Ministero della Salute (11)  in riscontro ad  una interrogazione parlamentare sulla c.d. PAS, molto controversa e dibattuta nella comunità scientifica internazionale e nazionale ed anche nei Tribunali, ove il Ministro afferma: “tale sindrome, non è ad oggi riconosciuta come disturbo psicopatologico dalla grande maggioranza della Comunità scientifica e legale internazionale, e anche negli Stati Uniti è soggetta ad amplissime discussioni”. Ed ancora, si evidenzia come la “sindrome” non risulti neppure inserita in alcuna delle classificazioni in uso, come la “International classification of diseases” (ICD 1O) o il “Diagnostic and statistical manual of mental disorders” (DSM 5), in ragione della sua evidente “ascientificità” dovuta alla mancanza di dati a sostegno….La Comunità scientifica sembrerebbe concorde nel ritenere che l’alienazione di un genitore non rappresenti, di per sé, un disturbo individuale a carico del figlio, ma un grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicologico e affettivo del minore stesso.

Ed infatti, nel DSM IV tale problematica è inserita tra i Problemi Relazionali Genitore- Figlio e nel DSM 5 all’interno delle problematiche correlate alla cura dei figli. E pertanto, allo stato attuale  degli studi in materia, non è scientificamente corretto parlare di “ Sindrome” ma di “ Disturbo del comportamento relazionale” . Emerge quindi, anche dalla risposta del Ministero, la preoccupazione di  un uso strumentale nelle controversie legali della “sindrome da alienazione”, poiché sono frequenti i casi in cui i minori vengono affidati in via esclusiva all’altro genitore o ad una comunità rieducativa sulla base di una diagnosi di PAS, priva di alcuna validità scientifica nella letteratura medica. 

La nota del Ministro, precisa inoltre che è “del Ministero della giustizia intraprendere le adeguate iniziative finalizzate a garantire che, nelle sedi processuali, non vengano riconosciute patologie prive delle necessarie evidenze scientifiche, tanto più pericolose, poiché aventi ad oggetto decisioni in materia di minori” e che “è condivisa opinione tra gli studiosi, come evidenziato dall’Istituto Superiore di Sanità, che sarebbe utile promuovere ulteriori studi sistematici e su larga scala in materia di alienazione parentale, che tengano conto delle questioni discusse allo scopo di definire criteri diagnostici oggettivi adeguati per una diagnosi scrupolosa e un trattamento valido.

Su questo sfondo, la decisione della Corte di merito nel caso specifico, che appare immune da qualunque accenno o richiamo alla PAS o all’alienazione genitoriale, si distingue per aver attuato una inversione del collocamento del minore, per giunta nella modalità ibrida della residenza presso una comunità educativa insieme al padre, al fine di garantire al massimo la sicurezza del bambino, attese le pendenze penali. 

Ciò sembrerebbe confermare quindi, indirettamente, che a prescindere dalla terminologia che si voglia utilizzare, l’alienazione genitoriale si concretizza in una serie di condotte afferenti ad un disturbo relazionale, una serie di fatti e comportamenti posti in essere da un genitore e finalizzati ad alienare, ossia a rendere estraneo, l’altro genitore al figlio ed il figlio al genitore ( la casistica è assai ampia nelle controversie giudiziarie familiari, ma abbastanza ripetitiva, in quanto si va dalle condotte impeditive per evitare che l’altro genitore (c.d. alienato), possa esercitare il proprio diritto di frequentazione del figlio, alle condotte omissive consistenti nel tenere l’altro genitore all’oscuro di tante ed importanti decisioni riguardanti la vita del minore, sino  alle condotte condizionanti volte a indurre il figlio a rifiutare il genitore “alienato” sulla base di una denigrazione costante di quest’ultimo, agita dal genitore c.d. alienante). D’altronde già in precedenza ed in modo chiarissimo, la Corte di Cassazione nella citata  sentenza del 2016 così afferma: “ Non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS, ma è certo che i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte della figlia e sono venuti meno all’obbligo di verificare, in concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore. Il giudice di merito, a tal fine, può utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e anche le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, laddove esistente, di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e uno dei genitori)”. (12)

Per la Suprema Corte quindi, tali comportamenti, ove accertati, pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità- quindi la sua crescita equilibrata e serena- ma anche il diritto al rispetto della vita privata e familiare ex art. 8 Conv. EDU, come affermato dalla sentenza della CEDU del 9 gennaio 2013, n. 25704, L. c. Rep. Italiana. (13)

E quindi, l’Ordinanza commentata, avendo valutato l’accertamento, nella sede istruttoria, di tali fatti e comportamenti, sembra porsi nel solco del principio di diritto affermato dalla stessa Corte di Cassazione in precedenti pronuncesi deve enunciare il seguente principio: in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena”. (14)

Si spera tuttavia, che la decisione della Corte di merito possa essere stata la decisione davvero più rispondente al miglior interesse ed al miglior benessere possibile di quel bambino, purtroppo conteso, come tanti altri, tra due genitori in grave ed insanabile conflitto, un conflitto che lungi dal trovare una composizione soddisfacente in tempi rapidi ed efficaci, si trascina e si amplifica a dismisura nelle aule giudiziarie, a causa proprio di una eccessiva “ medicalizzazione” delle relazioni familiari e di cui le vittime incolpevoli e finali sono proprio i figli, come le cronache quotidiane anche degli ultimi giorni ci mostrano, purtroppo ogni volta, con rinnovato orrore.      


Note

1) Si ricorda che la Corte Suprema (Cass. del 7 maggio 1998 n.4614) ha ripetutamente avuto modo di affermare (tra le altre, Cass. Sezioni unite 6220-86; Cass. 4644-93; Cass. Sezioni unite 1026-95; Cass. 1224-95; Cass. 7620-96) che le statuizioni in tema di affidamento della prole e quelle pure emesse dal giudice minorile ai sensi dell’art. 333 c.c. nel quadro della potestà dei genitori non sono impugnabili per cassazione ex art. 111 Cost., atteso che configurano espressione di giurisdizione volontaria, non contenziosa, perché non risolvono conflitti fra diritti posti su piano paritario ma sono preordinati all’esigenza prioritaria della tutela degli interessi dei figli”.  

2) Cassazione civile, sez. I, sentenza 21/11/2016 n° 23633

3) Cassazione civile, sez. I, sentenza 21/11/2016 n° 23633

4) Corte di Cassazione, sez I Civile, ordinanza n. 10777/2019, dep. il 17 aprile 2019; prima di tale pronuncia si rinviene solo qualche rara pronuncia delle Corti di merito come ad es. Corte App. Catania, sez. famiglia, persona, minori, decreto 14 novembre 2012 che ha ammesso la reclamabilità ex art. 739 c.p.c. dei provvedimenti provvisori adottati nel procedimento ex art. 317 bis c.c. ( ante novella 2013), poiché “anche se non è esplicitamente prevista nel processo camerale minorile una forma di reclamo analoga a quella prevista dal comma IV dell’art. 708 c.p.c. e che i provvedimenti provvisori sono modificabili dal giudice che li ha emessi, tuttavia non può negarsi nelle procedure per l’affidamento dei figli naturali quella stessa garanzia di rivedibilità dei provvedimenti provvisori, da parte di un giudice diverso da quello che li ha pronunciati, che attiene alla procedura di affidamento dei figli legittimi, purché si tratti di provvedimenti idonei ad incidere sui diritti soggettivi con quella definitività che è propria della materia, e cioè in maniera significativamente stabilizzata nel tempo, pur se rivedibile al sopravvenire di fatti nuovi. Questa tendenziale stabilità deve ritenersi propria anche del provvedimento di affidamento reso nei provvedimenti provvisori, posto che l’assetto di vita dato al minore anche in via provvisoria è idoneo a creare nel tempo delle abitudini e quindi quelle consuetudini di vita che costituiscono un valore da tutelare (Cass. 4 giugno 2010 n. 13619)”

5) Associazione italiana Consulenti psico forensi. 

6) Relazione a cura dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione sulla  Legge 19 luglio 2019, n. 69, “Modifiche al codice    penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” Rel. 62/19 – Roma, 27 ottobre 2019.

7) Cassazione civile, sez. I , 13 dicembre 2018, n. 32309L’ascolto del minore di cui all’ art. 336 -bis c.c. costituisce adempimento essenziale e la sua omissione è causa di nullità della sentenza rilevabile come motivo di impugnazione. Laddove il minore dovesse compiere l’età prevista dalla legge per essere ascoltato nel corso del giudizio di appello, il giudice del gravame è tenuto, “ex officio”, a procedere alla sua audizione.”

8) La  Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza – Conquiste e prospettive a 30 anni dall’adozione, parte II, paragr. 8, I best interest of the child”, di Elisabetta Lamarque, pag. 146-147 “ Se si dovesse spiegare il principio dei best interests a qualcuno che non ne ha mai sentito parlare, allora, si potrebbe dire così: in base a questo principio, chi si trova a dover prendere una decisione che riguarda la vita di una persona di minore età – che di solito da noi è un’autorità pubblica come un giudice o un assistente sociale – deve abbandonare ogni preconcetto e ogni idea personale per mettersi nei panni del bambino (in the child’s skin), e da questa prospettiva deve individuare ciò che conta di più per la vita del bambino e che gli garantisce il massimo benessere (well-being o welfare). E il ‘pacchetto’ di questi interessi/esigenze/bisogni primari della persona di minore età è ciò che le assicurerà appunto il benessere, e cioè il welfare e il well-being, termini che nella tradizione anglo-americana dei children’s rights sono spesso utilizzati come sinonimi dei best interests. L’espressione inglese best interests of the child, dunque, potrebbe essere più correttamente resa in italiano con locuzioni come “il migliore interesse” o “il massimo benessere possibile” della persona di minore età, oppure ancora “la soluzione migliore” (tra tutte quelle possibili) per il bambino o l’adolescente.

9) Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, di  Zygmunt Bauman, Laterza Editore

10) Cassazione civ., sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919

11) Risposta del Ministro della Salute On. Roberto Speranza del 29 maggio 2020, all’interrogazione parlamentare n. 4 -02405 della Sen. Valente. 

12) cfr. nota 10

13) cfr. nota 10” l’assenza di collaborazione tra i genitori in conflitto e, talora, l‘atteggiamento ostile (da dimostrare nel caso concreto) del genitore collocatario nei confronti dell’altro genitore) che impedisca di fatto al minore di frequentarlo, comporta una grave violazione del diritto del figlio al rispetto della vita familiare e non dispensa le autorità nazionali dall’obbligo di ricercare ogni mezzo efficace al fine di garantire il diritto del minore di frequentare adeguatamente e tempestivamente entrambi i genitori.

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