Sentenza Lucia Regna: maltrattamenti in famiglia

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Sentenza Lucia Regna: maltrattamenti in famiglia

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La parola all'Avvocato

Sentenza Lucia Regna: maltrattamenti in famiglia

Lucrezia Colmayer

Avvocata del Foro di Roma, esperta nella tutela delle donne vittime di violenza, componente della Commissione Procedura penale dell’Ordine degli Avvocati Roma. Già componente della Commissione Progetto Donna dell’Ordine degli Avvocati di Roma.

Desta clamore, ed anche un pizzico di indignazione, la sentenza – di assoluzione per il delitto di maltrattamenti e condanna per lesioni aggravate con concessione di sospensione condizionale –pronunciata dalla Terza sezione penale in composizione collegiale del Tribunale di Torino le cui motivazioni sono state depositate qualche giorno fa.

All’imputato veniva contestato

1) il delitto di cui all’art. 572 c.p. per aver maltrattato la moglie con epiteti come “troia e puttana”, spintonandola frequentemente nonché tirandole uno schiaffo in una occasione;

2) il delitto di cui agli artt. 582, 585, 576 n.5, 577 e 583 c.1 n.2 c.p. per aver colpito la moglie al volto con un pugno dal quale derivava una frattura scomposta e una diplopia.

Sin dalle primissime righe la sentenza appare intrisa di cultura patriarcale. La non attendibilità della persona offesa non è più logica conseguenza di un ragionamento giuridico che porta il collegio ad escludere la responsabilità penale dell’imputato bensì premessa da cui partire. A quel punto l’imputazione per maltrattamenti risulta essere “costruita” sulla base di un singolo episodio di lesioni.

Date queste premesse, tutto ciò che viene dopo non può sorprendere.

Se sin da subito il vissuto della vittima viene declassate a fatto che “ha impegnato il collegio” (il tono dell’affermazione porterebbe il lettore a aggiungere in maniera naturale l’avverbio inutilmentealla frase), non possiamo meravigliarci del giudizio morale che cade sulla vittima stessa.

Il collegio vorrebbe ricostruire “la vita del nucleo familiare” ma il tentativo sembrerebbe trasformarsi più in una ricostruzione della vita della vittima, del suo modo di agire (che poi giustificherà il fatto), delle sue capacità educative con i figli.

E così, il modo in cui la stessa comunica al marito la separazione viene definito come “brutale” tanto da arrivare a comprendere i sentimenti dell’imputato “non è difficile immaginare cosa abbia provato l’imputato nel constatare che sua moglie poneva fine con un messaggio Whatsapp a un legame quasi ventennale”.

La stessa comprensione non è riservata, però, alla vittima la cui narrazione viene considerata “drammatizzante” o addirittura una lamentela di poco conto.

Gli insulti e le minacce, tutto ciò che con fatica siamo riusciti a far rientrare nella definizione di violenza psicologica, ad oggi ancora poco riconosciuta dai Tribunali, vengono declassati a “semplici discussioni domestiche”. Le frasi sei una puttana, hai rovinato una famiglia, non guadagni un cazzo, farai la fame, devono essere, secondo il collegio, calate nel loro contesto: “l’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica era umanamente comprensibile”.

Quelle che sembrano essere accuse unilaterali tipiche di una relazione violenta vengono riportate nell’alveo della dialettica familiare e di conseguenza “normalizzate”.

E, dunque, mentre il racconto della vittima viene sottoposto ad una analisi chirurgica in cui ogni parola sbagliata viene posta a fondamento della condanna di inattendibilità, il racconto dell’imputato viene compreso fino ad essere giustificato.

Qui assistiamo in primo luogo al sovvertimento della regola giuridica: l’imputato, che ha diritto di mentire e difendersi in ogni modo, viene considerato “sincero e persuasivo”; il narrato della parte civile, che deve essere oggetto di un vaglio semplicemente rafforzato visti gli interessi in gioco, viene considerato “largamente inattendibile”. Viene persino messa in dubbio la data di inizio della nuova relazione sentimentale della persona offesa e ciò non sulla base di dati fattuali, ma di valutazioni che portano il Tribunale a bollare come “evenienza statisticamente improbabile” la ricostruzione temporale fornita dalla vittima. Il collegio, dunque, sembra persino arrogarsi il diritto di decidere la data esatta in cui la donna decideva di intraprendere una nuova relazione sentimentale.

Se, dunque, ci immedesimiamo nel reo, lo comprendiamo, diamo un valore morale alle sue azioni (“come dargli torto”, dice il collegio), verrà “spontaneo (sic!) ridimensionare un pestaggio ad un semplice episodio, unico e solo, di lesioni personali.

Un’aggressione, a seguito della quale la vittima vedrà il suo viso ricostruito con 21 placche, diventa “un accesso d’ira”. Il collegio non tarda a spiegare che questa lettura “semplicistica” dei fatti ci porterebbe a etichettare l’imputato come “un pericoloso squilibrato, capace di ripetere indefinitamente e imprevedibilmente gesti vilenti”. Ma se invece caliamo i fatti nel loro contesto, li leghiamo a comportamenti “non ineccepibili della vittima”, comprendiamo lo stress emotivo dell’imputato, se teniamo conto delle cause saremo in grado di analizzare la complessità e ricondurre tutto alla logica umana delle relazioni.

E da qui sarà facile desumere: l’imputato non è in generale un violento, voleva giusto sferrare quei pugni alla moglie, alla moglie, proprio lei, mica lo farà con altri.

Allora così, diventa tutto più comprensibile. E ciò anche se assistiamo ad un nuovo sovvertimento delle regole giuridiche per cui diventa rilevante il motivo che determina il soggetto ad agire.

Di nuovo, visto il percorso logico-giuridico seguito dal collegio, non possiamo meravigliarci se molte pagine della sentenza vengono impegnate per screditare il narrato della vittima e poche parole vengono spese per la brutale aggressione che poi la stessa subisce. Ed anche non stupisce l’assenza di qualsiasi richiamo alla Convenzione di Istanbul che impegna a livello sovranazionale gli Stati alla tutela e al rispetto delle vittime di violenza.

Eppure, non sarebbe stato più logico ragionare sull’ipotesi che quella brutale aggressione potesse essere solo il culmine di un comportamento violento, una condotta di sopraffazione portata avanti quotidianamente tanto da far sentire il soggetto in diritto di agire anche con violenza fisica?

Ci hanno insegnato che spesso la dinamica della violenza è proprio questa.

In conclusione, se caliamo i fatti nel loro contesto, se valutiamo lo stress emotivo potremo facilmente concedere, come il collegio ha fatto, la sospensione condizionale della pena.

L’imputato, però, dovrà frequentare uno specifico percorso di recupero previsto dall’art. 165 c. 5 c.p. Viene spontaneo chiedersi, però, con quale spirito questo percorso verrà intrapreso quando la condanna viene irrogata con l’utilizzo di un così accurato linguaggio assolutorio.

L’apparente complessità che il Tribunale vorrebbe far emergere attraverso un articolato ragionamento rischia di essere vissutacome un amaro tentativo di limitare le battaglie condotte sino ad ora per contrastare culturalmente, fuori e prima ancora che nelle aule di giustizia, il fenomeno della violenza di genere. La sensazione è quella di trovarsi in un infinto gioco dell’oca in cui pronunce di questo genere ci fanno continuamente ripartire dal via.

Sono sicura, però, che in tante continueremo a pensare che le sentenze non dovrebbero condannare le vittime e ciò a prescindere dal se il fatto di reato superi la soglia del penalmente rilevante. Ed ancora, continueremo a sollecitare i Tribunali all’uso di un linguaggio, possibilmente di genere, rispettoso della sofferenza delle persone e scevro da giudizi morali.

Sentenza

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