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Violenza morale e ferite dell’anima

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Violenza morale e ferite dell’anima

Dalla pressione psicologica alla violenza

Ogni donna può potenzialmente diventare vittima di un uomo violento, ma è la sua vulnerabilità a determinare il percorso in termini più o meno drammatici.

Ci sono donne che per la loro storia e per caratteristiche intrinseche di personalità fanno meno resistenza, determinando una escalation in negativo. In altri termini danno all’uomo l’idea che potranno essere dominate.

In ogni coppia, entrambi conoscono bene i punti deboli del partner e nel corso di una discussione non si esita a colpire proprio lì. Dunque, non esiste una vittima tipo, ma sicuramente la sfera affettiva gioca un ruolo molto importante. 

Perché le donne non lasciano gli uomini violenti?

Ci sono donne che, più di altre, sono insicure a livello affettivo, spesso sono apparentemente appagate e soddisfatte della propria vita sociale e professionale, ma hanno paura di interrompere le relazione con l’uomo che ritengono più forte e unico, fonte di amore e felicità. Possono quindi sottomettersi al volere del partner allo scopo di mantenere la relazione, qualunque sia. Una persona di questo tipo, cioè dipendente affettivamente, ha spesso una storia familiare frustrante, in cui ci sono stati abbandoni reali o presunti, non c’è stata una sufficiente accettazione da parte dei genitori, oppure le figure significative non sono state in grado di trasmettere autonomia emotiva. Così il partner diventa colui che deve colmare questi antichi vuoti, affrancando finalmente la persona dal rifiuto/abbandono/non-riconoscimento primigenio.

Ma il modello conosciuto e riconosciuto da questo tipo di persone fa sì che si ricerchino partner che confermano lo schema del vissuto soggettivo infantile. In altri termini, queste donne cercano e trovano qualcuno che confermerà il convincimento di non essere meritevoli di amore e rispetto. Così si soffre per ottenere amore, ma non lo si ottiene mai. 

Avvicinarsi ad una persona affidabile, stabile e capace di amare porterebbe a spezzare lo schema perverso. Ottenendo amore, cosa sconosciuta, la persona dipendente sente di non essere in grado di gestirlo e sicuramente di non meritarlo. Così si disconosce il bisogno (che invece c’è in ogni individuo) di ricevere amore. E’ facile immaginare come chi è dipendente sia facile preda di una persona manipolativa o violenta. Si crea così un rapporto di coppia dipendente.

Se c’è uno dei due che è dipendente anche l’altro lo è anche se può sembrare dominante. La relazione diventa dipendente: vittima e carnefice vanno a costituire un incastro perfetto dal quale diventa difficile, se non impossibile, uscire fuori. Uomini e donne si trovano insieme intrappolati in un gioco fusionale di cui nessuno dei due ha il controllo. Il carnefice ha l’illusione di dominare la vittima, ma in realtà è un gioco delle parti in cui entrambi soffrono e contribuiscono a distruggere la relazione sana che poteva far star bene entrambi.

Parliamo di donne vittima e non di uomini vittima, non perché non ne esistono, ma perché è di gran lunga più frequente che la vittima sia donna. Come si può facilmente immaginare è un fattore culturale. L’antica prevaricazione dell’uomo sulla donna, per quanto si siano fatti tanti passi avanti, non è ancora superata. È solo diventata più sofisticata, più sottile. Rispetto al passato, oggi, è più diffuso il non-riconoscimento della persona e la conseguente disconferma.

Nell’ambito privato la disconferma viene agita sotto forma di molestia morale. Un continuo e costante lavoro di demolizione della persona in quanto capace, adeguata e degna di svolgere il suo ruolo. Si configura sotto forma di molteplici modalità. La violenza fisica spesso arriva solo alla fine di una lunga serie di sopraffazioni verbali e psicologiche, e solo quando la vittima osa ribellarsi.

Anche la violenza sessuale si verifica in molti casi, ma è ancora più difficile parlarne perché provoca nella vittima uno stato di degrado e di umiliazione tale da annientare ogni tentativo di difesa.

Il caso di Giulia 

Ho conosciuto Giulia quando non aveva ancora 30 anni. Si era separata da poco dal marito e cresceva da sola il loro bambino di appena 6 anni. Era una pittrice molto originale e faceva dei bellissimi oggetti di ceramica. Non aveva un lavoro vero, per cui viveva in modo molto modesto con gli alimenti che le dava il marito.

Ad un certo punto, o forse perché lo conosce già da prima della separazione, inizia una relazione con Libero, uomo libero di nome e di fatto, tanto da avere la fama del playboy. Libero con lei si dimostra molto geloso e possessivo. Spesso viene alle mani e, con il pretesto che la desidera troppo, la coinvolge in frequentissimi rapporti sessuali. A lungo andare Giulia lamenta dei sintomi, quali bruciori ai genitali e alle vie urinarie, accompagnati da perdite copiose e frequenti.

In una vacanza in barca i rapporti sessuali a cui Giulia è costretta sono talmente frequenti, che le è impossibile prendere il sole. È sempre “relegata” sotto coperta. Dopo due settimane di quella vita, Giulia chiede di poter tornare a casa perché non sta bene… La sua richiesta rimane totalmente inascoltata. È costretta a vivere fino alla fine quella “vacanza incubo”. 

Nonostante i segnali così evidenti, così forti e chiari, Giulia continua a giustificare Libero.  “È geloso – pensa – perché ho un passato da donna sposata e non sono stata sempre e solo “sua”.  Motivazioni che fanno andare avanti la relazione nella quale, però, Giulia è sempre più sofferente e insoddisfatta… non riesce nemmeno a prendere peso, e ne avrebbe tanto bisogno. Pesa infatti solo 45 kg ed è magrissima. Ma quando anche il figlio diventa bersaglio delle intemperanze di Libero, Giulia comprende che è finita anche quella relazione.

Libero non accetta la decisione di Giulia e la tormenta con chiamate continue, la segue, si apposta sotto casa di lei, tanto che Giulia è costretta a trasferirsi dalla madre dove si sente un po’ più protetta. Le richieste di chiarimento si alternano a minacce e a dichiarazioni di amore eterno. Giulia si fa convincere. Accetta di andare a casa di Libero. Pensa che “in fondo siamo stati insieme più di cinque anni. Glielo devo….”.  Con la madre trova il pretesto di un lavoro per avere un po più tempo a disposizione. In fondo Giulia spera di far pace. Spera di trovarlo cambiato, avergli dato modo di riflettere con la sua assenza…

Libero, invece, ha un piano preciso. La costringe nuovamente ad avere rapporti sessuali. Ma soprattutto, la umilia in tutti i modi. Le lega i polsi e la lascia quasi completamente nuda per ore e infine la minaccia di non raccontare l’accaduto, altrimenti saranno guai per suo figlio.  Giulia vive cinque giorni di vero terrore. Giorni in cui pensa di morire e ha vergogna per la condizione in cui l’ha ridotta proprio l’uomo che per tanto tempo ha creduto di amare. 

Il sesto giorno, approfittando dell’assenza temporanea del suo carceriere, riesce a mettersi in contatto con uno zio che accorre immediatamente e la toglie dalla terribile situazione. Giulia decide di non denunciare Libero per i maltrattamenti subiti perché ha paura che le minacce possano concretizzarsi… e non solo… in più ha anche paura di non essere creduta… lei la “donna separata”. Si porta dentro tutte le umiliazioni subite… va avanti rivendicando una sorta di diritto all’oblio… ma qualcosa dentro si è rotto per sempre.

La pressione economica è un’altra modalità per costringere la vittima a non abbandonare una relazione alienante. In genere, il partner cerca di togliere autonomia alla donna impedendole di lavorare, richiamandola ai doveri familiari. Da alcuni anni, in seguito alla emancipazione femminile, accade anche il contrario. Ci sono casi in cui è la donna che mantiene la famiglia. Ci sono uomini che con la scusa del licenziamento smettono di lavorare, fanno finta di cercare un lavoro, o lo cercano senza tuttavia riuscire a trovarlo. In questi casi le donne si sentono in colpa e non riescono a lasciare il compagno anche se sono insoddisfatte del rapporto di coppia e sopportano di rimanere in una relazione spesso insoddisfacente e umiliante. Il senso di colpa schiaccia la donna e a volte viene potenziato da minacce anche gravi come il suicidio.

Solo in alcuni casi si arriva alla violenza fisica. Molto più diffusa nel vissuto delle coppie è la violenza verbale, i dialoghi sono colmi di frasi umilianti che mirano al disprezzo e all’indebolimento dell’autostima della vittima. La pressione è costante e mira a stabilire il controllo sull’altro. 

È la ripetitività e il carattere umiliante a modificare la percezione che la vittima ha di sé, tale da condurre la persona ad uno stato di impotenza totale. La violenza viene consumata esclusivamente tra le mura domestiche. Anzi spesso in pubblico, al contrario, l’uomo può essere molto premuroso in modo da ottenere due risultati. 

Il primo è quello di assicurarsi testimoni a suo favore. Il secondo, di procurarsi il favore della donna; mostrandosi amorevole ancora di più susciterà in lei confusione e senso di colpa. In questo modo l’uomo ottiene pienamente ciò che desidera veramente: il potere!

Anche in questi casi, nei quali non esiste violenza fisica e la violenza è così detta “pulita”, la donna può esprimere la sofferenza attraverso il corpo. Le donne che subiscono questo tipo di violenza hanno una salute meno buona e assumono più farmaci delle altre donne.

Il Caso di  Lavinia

Lavinia conviveva con Aldo da circa 12 anni. Si erano conosciuti in palestra, dove andavano entrambi ormai sessantenni. Dopo un po’ di frequentazione, circa 2/3 mesi, Aldo va a vivere a casa di Lavinia. Lei era rimasta stupita dell’interessamento di Aldo. Anche perché, a parte l’età, lei aveva dei problemi di deambulazione, conseguenza di un ictus cerebrale.

L’ictus era stato causato da una aggressione di cui Lavinia era stata vittima quando non aveva ancora 50 anni e di cui non ricorda molto. L’aggressore l’aveva presumibilmente stordita e al suo risveglio si era trovata quasi nuda, senza la parte di sotto del pigiama. Nonostante il sostegno psicologico richiesto, però, a distanza di circa 25 anni dal fatto, non era riuscita a ricordare, ed era rimasta con questo grande dubbio, in gran parte negato, se l’aggressore avesse oppure no abusato di lei.

Questo evento aveva reso Lavinia insicura e dipendente. Non amava rimanere da sola ed era diventata, nel tempo, meno selettiva nella scelta delle amicizie e negli affetti. 

Nella convivenza, è Lavinia di fatto “ad ospitare” Aldo a casa sua. Lui contribuisce solo in minima parte al funzionamento del ménage familiare, partecipando con piccole spese per l’acquisto di alimenti. 

Ma quando, ad esempio, Lavinia, grande appassionata di viaggi, vuole fare una vacanza, deve insistere molto per farsi accompagnare. Si offre di pagare la parte di Aldo, che acconsente con l’aria di chi sta facendo un favore. Ma quello che Lavinia non riesce a mandar giù è la sua aggressività verbale. 

“È vero – afferma che non è mai passato a quella fisica, se non con qualche strattone”. Ma uno spintone, seppur leggero, che viene dato ad una persona che si regge in piedi a malapena è già da considerare cosa grave. Aldo reagisce in maniera spropositata anche per un nonnulla e spesso la riempie di rimproveri e parolacce, umiliandola. Urla così forte che anche i vicini si accorgono delle sue reazioni esagerate. 

Lavinia soffre molto per questa situazione e pensa di non meritare un trattamento così. Ma non ha il coraggio di lasciare Aldo, non riesce ad immaginare la sua vita senza un uomo. D’altronde da quando aveva lasciato il marito, tanti anni fa, a causa dei suoi continui tradimenti, era passato tanto tempo… “e poi, in fondo – si diceva non è cattivo; ha solo un brutto carattere”.

Perché si può arrivare al femminicidio?

Si arriva raramente all’omicidio. L’altro viene percepito come parte di sé e viene anche incoraggiato da un sentire comune che fa riferimento ad una romantica quanto improbabile ‘propria metà’. L’uomo, così, si comporta come se la donna fosse di sua proprietà.

L’omicidio viene preso in considerazione quando è insopportabile che l’altro possa avere e volere una vita altra. “O con me o morta!” L’omicidio, paradossalmente, da un punto di vista psicologico, rappresenta una “riparazione” al danno che la donna ha causato per aver rotto il patto. Per aver distrutto tutto quello che lui aveva costruito per lei. Una sorta di risarcimento per non avergli permesso di realizzare il progetto matrimoniale. L’omicidio costituisce un atto di dominio estremo che attraverso la negazione dell’altro afferma se stesso. Un atto di onnipotenza simile sta nella convinzione della vittima che resiste, pensando che l’amore per lei lo cambierà.

Spesso le crisi coniugali iniziano con la nascita del primo figlio o anche prima, all’annuncio del suo arrivo. Gli uomini fragili talvolta esprimono l’ansia relativa alla responsabilità che questa evenienza comporta, dubitando della paternità. Iniziano così a tormentare e a disconfermare la donna. 

Inoltre il bambino viene percepito come terzo che divide la coppia e distoglie la donna dalle cure e dall’attenzione per il compagno. E’ frequente nelle terapie di coppia: gli uomini lamentano queste disattenzioni anche a distanza di anni. Se gli uomini sono fortemente fragili e insicuri prendono di mira soprattutto il primogenito perché ritenuto responsabile dell’inizio della crisi di coppia e dello spostamento dell’amore della donna.

L’art. 213 del vecchio Codice Civile recitava: “il marito deve protezione alla moglie che come contropartita gli promette obbedienza”. Storicamente l’uomo è stato considerato l’unico detentore di potere. Un potere da cui la donna è sempre stata esclusa. È chiaro che, con questa premessa condivisa, sono proprio le donne che hanno favorito questa convinzione, educando i figli maschi ad essere dominanti e le femmine ad essere passive e remissive, rafforzando la loro dipendenza e avallando il comportamento degli uomini relativo al controllo e all’esercizio del potere.

Perché le donne resistono e non vanno via, mettendosi al sicuro?

Spesso, quando le persone arrivano a parlare della pressione psicologica è perché è successo qualcosa che le ha portate a “vedere” (anche se solo temporaneamente e parzialmente) la condizione di sottomissione. Spesso è la violenza fisica a mettere in evidenza il problema anche agli occhi di familiari e amici. Ma, se le percosse sono state possibili, è perché si è creato sin dall’inizio della relazione uno spazio che ha indebolito la capacità reattiva della donna.

La presa di coscienza è difficile in quanto ci si “abitua” piano piano: è il caso del paradosso della rana bollita di Chomsky. L’obiettivo è quello di sottomettere, dominare, controllare affinché resti al suo posto di “oggetto”. La distruzione non è fisica, ma avviene attraverso l’annientamento della volontà.

Non esiste un tipo di donna più predisposta di altre. Secondo V. Sadok “tutte le persone sono vulnerabili al lavaggio del cervello, se vi sono esposte per lungo tempo, se sono sole, senza aiuto e non hanno speranza ad uscire dalla situazione”.

I meccanismi tipici per ridurre all’impotenza una vittima e manipolarla fino a renderla inoffensiva sono infatti quelli di:

  • isolare la donna dalla famiglia, dagli amici e dal lavoro; 
  • controllare le sue interazioni con il mondo esterno, rendendole impossibile gestire autonomamente telefono, mail e posta personale; 
  • renderla dipendente economicamente, convincendola a lasciare il lavoro o fare in modo che non ne trovi uno, richiamandola alle responsabilità familiari e non aiutandola con i figli e nella gestione della casa.

L’impotenza derivante dalla sottomissione può essere “appresa” come una sorta di addestramento.

“Quando un individuo apprende per esperienza di essere incapace di agire sul suo ambiente per trasformarlo a proprio vantaggio, diventa incapace di imparare”
H. Laborit

Si tratta di un condizionamento a non agire, definito da Saligman learned helpless, in italiano più o meno “impotenza appresa”. Quindi, paradossalmente, più è grave e sistematica la pressione subita, e meno la vittima sarà in grado di tirarsi fuori, perché indebolita e priva di strumenti psicologici che le permetterebbero di sottrarsi.

Questo meccanismo, inoltre, può essere considerato anche una modalità adattiva. L’impotenza determina la consapevolezza che non c’è una via d’uscita, pertanto una difesa che può attivarsi potrebbe essere quella dell’identificazione con l’aggressore o sindrome di Stoccolma: vedere il mondo come lo vede lui, in modo da dominare il pericolo e la paura.

Le donne possono arrivare a credere che, se il partner è violento, è perché non sono riuscite a soddisfarlo. Non sono buone mogli, buone madri, buone amanti. E questa convinzione viene rinforzata dal fatto che sono gli stessi uomini a giustificare così le critiche continue fino alla violenza vera e propria. 

Andando ad agire sul vissuto di colpa, queste dinamiche relazionali fanno sì che queste donne non riescano a provare aggressività, quanto piuttosto soggezione, provocando in loro uno stato di sottomissione. Il legame di soggezione può persistere a lungo anche quando la coercizione è scomparsa, lasciando un vero e proprio disturbo post traumatico.

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